lunedì 2 aprile 2012

Magari un domani

Zigzagando affaticata e ronzando spaesata e confusa, una mosca sta per posarsi sull’anulare sinistro dell’impiegato del mese da troppi mesi: unico nel suo ufficio a non essere figlio di, amico di o schiavo di, proprio non riesce a elevarsi sopra la mensile elezione a impiegato migliore, carica che, secondo il suo capo, è comunque di inestimabile prestigio, soprattutto da quando ha accolto il proprio nipote nel posto da dirigente, rimasto recentemente vacante.
A questo pensa, con lo sguardo smarrito nel brusio dell’insetto, il valoroso dipendente, mentre viene colpito da uno di quei frequenti e fugaci istanti di riflessione, in cui la sua abituale foschia di confusa speranza lascia il posto a un esistenziale horror vacui, dovuto alla perenne volontà di vivere altrove, al desiderio costante di evadere dal presente. Appare, allora, in tutta la sua pericolosa mostruosità la chimera delle speranze future, genitrice di mete remote che non si raggiungono.
“Tutti mi rispettano ma nessuno mi stima, perché la mia esistenza gira intorno a un lavoro che non mi piace e, insoddisfatto, mi convinco che i miei sforzi, un giorno, saranno premiati. Ma da chi? Da che cosa? E soprattutto quando?”
Come diapositive impilate una sull’altra, che offrono un paesaggio buio, indefinibile ma completo in quanto somma dei singoli scorci, davanti agli occhi spalancati e asciutti dell’impiegato si condensano i suoi sacrifici non ancora ricompensati: l’amara scelta universitaria di fare economia anziché storia dell’arte, per la quale ha assopito la sua passione fin dai tempi delle superiori. L’abbonamento ai mezzi pubblici al posto della Vespa bianca, che ogni mattina vede alla fermata dell’autobus e che ha lasciato dietro alla vetrina del concessionario con lo scopo di accumulare risparmi, per potersi permettere, un giorno o l’altro, un appartamento di cui, in ogni caso, dovrà accontentarsi.
La storia con Claudia, che gli aveva proposto: “Sposiamoci!”, ma a cui lui aveva dovuto rispondere un tristemente ragionevole “non posso”.
E poi quel lavoro e il disgraziato giorno in cui era stato assunto.
“Potrei avere un posto migliore, una vita più soddisfacente, oppure fare la fame – pensa –, sarebbe comunque meglio.” Non vuole essere dov’è. Non vuole essere chi è.
“Basta!”
Con un impulso improvviso e scattante spalanca il cassetto sotto la sua scrivania, afferra con sicurezza una busta candida ma sgualcita, contenente le sue dimissioni. I polpastrelli della mano destra tamburellano sorde palpitazioni sulla carta, nel momento in cui l’uomo, alzatosi in piedi, si scosta dalla scrivania, gettandosi su una spalla la giacca, repentinamente sfilata dallo schienale della sedia.
A testa alta, come se stesse posando gli occhi vividi, virenti su un interlocutore fuori dal campo visivo, con passo cadenzato e rumoroso consegna la busta alla segretaria nonché cognata del suo capo, senza fermarsi, per una volta, ad ascoltare pazientemente tutte le noiose novità di famiglia e i fastidiosi successi iperbolici dei figli del direttore. Poi, dopo aver salutato con distaccata cordialità e insolita disinvoltura, si allenta il nodo della cravatta e si sbottona il colletto della camicia, liberando così l’infastidito pomo d’Adamo, irritato dalla cucitura dietro all’ultimo bottone; esce dunque dall’ufficio con l’intento, non solo la speranza, di non doverci rientrare.
Però questo è accaduto nella sua mente. Non veramente, non oggi, non nella realtà.
Forse in futuro. Magari un domani…
La mosca, posandosi finalmente sulla falange dell’anulare sinistro, attira l’attenzione del dipendente. L’impiegato del mese scuote la mano, infastidito, e torna al lavoro, ricurvo sui fogli sparpagliati sulla scrivania.
La mosca, intanto, va ronzando dove preferisce.

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