lunedì 30 novembre 2015

A Rob Brezsny

Caro Rob,
caro Roby. Bob,
Ro’, Bobby;
Robertino
Bertuz.
Caro uomo delle stelle
dalle stelle
alle stalle,
caro Starman
rinnegato da Bowie
uomo delle previsioni
senza cartine alle spalle
e nemmeno la bacchetta
per accarezzare
le migrazioni di pollini.
Amico di tutti
ma l’unico escluso
a capodanno
dal novero di Paolo Fox.
Caro Roberto,
che ti immagino
a collezionare feticci
da luoghi fuori dalle mappe
di continenti da favola
da paesi
che manco mezzo padiglione all’Expo
perché
semplicemente
non esistono.
Caro Bobby,
che ti penso
a casa
cogli scacciasogni pure al cesso – che poi non ho mai capito se i sogni li scaccino o acchiappino, ma non mi pare il caso di scriverci una poesia.
Ebbene, caro
omonimo del frontman
dei Pooh
non so se l’hai letto nelle palle degli occhi della Luna, o nelle palle – e basta – di Giove oppure, magari, l’hai captato nelle mie parole, comunque, caro Rob, è così:
m’hai rotto il cazzo.


Davvero,
mi hai del tutto annoiata
con le tue preveggenze
cieche,
le tue ipotesi
senza tesi,
le anticipazioni
che non spoilerano mai un cazzo di niente,
i tuoi presentimenti
senza sentimento
che non sentono nemmeno l’ovvio,
che se chiedessi a mia nonna come creare una web agency di successo, ne saprebbe di più, di quanto tu, uomo di cui non so pronunciare il cognome, non sappia sul mio futuro.
Sì, Rob, sì
perché sono proprio
incazzata. Con te, anche.
Perché ti abbiamo ascoltato
e tu
a tradimento
ci hai insegnato solo
che la vita
è prevedibile.

Tu ci hai fatto credere che la vita sia qualcosa di stabilito
di stabile:
confezioni
dosi
di destino
da somministrare ogni giovedì, come se si potesse vivere in base al pronostico dato con qualche ora di anticipo.
Ma non è così.
Infatti non si vive.
Hai sbagliato, Rob;
abbiamo sbagliato
e ora, diventati incapaci
disabili
all’esistenza,
dai nostri follower
perseguitati
non ci accorgiamo delle porte fuori uso, finché è troppo tardi per spostarci
per muoverci
per riaversi
per svegliarsi.
Siamo distratti
Siamo disadatti
a noi stessi. Divertirsi, sempre. Barattare il parlare con il cinguettare, pensare in 140 caratteri, spazi inclusi, emozioni deprezzate dai social-saldi,
dai saldi social
noi
invece
siamo volubili.

Non siamo alieni;
siamo alienati:
non serve un osservatore dei pianeti, esperto in carte natali, fatali, per capire che la vita senza like non ci piace.
Ormai ci sembra frustrante non poterci specchiare coi filtri e ricordare a tutti, ogni ora, che respiriamo ancora.
L’importante è divertire
de-vèrtere
distogliere
allontanare
allentare
l’attenzione
l’azione
non appena la vita
non sta nei pixel.
Emoticon spaesato
perché la vita
non sta
in cinque righe
nove, proprio quando il Sole sposa la Luna, Marte Venere, contattano Il boss delle cerimonie e ti invitano al matrimonio.
Il punto, Rob, è che la vita non entra in tot righe new age, che impieghi una settimana a scrivere.

L’esistenza esonda
Persone muoiono
anche se sono del nostro stesso segno
(No, non parlerò di Parigi.)
L’oroscopo
non prevede gli attentati
(No, niente Francia, non insistete.)
Lo zodiaco
non ti dice in che angolo di mondo starai meglio
sarai salvo
nemmeno in quale teatro
o sala concerti
(Ho detto niente Parigi. No.)
Non dirò che sono morti, che non sono gli unici e che ho pianto. E che Rob non ha previsto quante stronzate avete vomitato nei giorni seguenti, quanto patriottismo Vive la France ha acceso chi, fino al 13 novembre: Po-popopo-popopo.
Perché non interessa
il confronto
fare informazione
empatizzare e commuoversi.
L’importante
è cambiare foto del profilo.

Abbiamo tanta paura
della morte
e altrettanta paura di
vivere.

Ma dobbiamo insistere:
ricordare
che esistere
vale
le pene
se non semplifichiamo,
se accettiamo
questo star svegli
ogni tanto sognare
chiamato vita,
senza amputazioni
senza immobilizzarsi di fronte alla complessità, ché la vita
è un mostro
bellissimo.

Siamo così forti e facili
da rompere
che talvolta mi sale una fame
di esistere
e l’ansia
diventa smania
di fare
di dire.
La casualità non esiste, come il destino; esistono gli occhi
che scelgono
di guardare
e di vedere;
che il mondo
è ancora tutto da leggere.

Gli oroscopi me li scrivo da me.

Rob, ti ringrazio, perché sta settimana ci hai preso: mi si è fuso il modem, ho finito i gigabyte sul telefono. Ora non posso più sentirti.
Grazie.

sabato 14 novembre 2015

Un Po' e sia (feat. Giuseppe Ungaretti)

Ho cinque minuti
per parlare
poesia,
per dire
cosa sia. Cinque minuti.

In cinque minuti
mi bevo un caffè:
si zucchera, si soffia; si soffia più vicino, si beve.
Si lecca il cucchiaino, si lecca il bordo tazzina, poi le labbra
e si guarda fuori
si osserva la propria immaginazione, al di là dei vetri, a sposare l’aroma di caffè col profumo freddo dell’aria, sotto questo cielo d’autunno che promette primavere, ma di sera si arrende all’inverno. Come me, sotto l’acqua a sciacquare la tazzina, come mi arrendo io, a farmi piacere quello che devo, anziché fare quello che voglio.
In cinque minuti,
fumo una sigaretta
l’ultima
senza incollarla alle labbra,
come un primo, lungo bacio,
in cinque minuti
corri, senza pensare a niente, “Permesso!” “Scusi!” fai due gradini alla volta, ti secchi gli occhi per non perdere tempo a sbattere le palpebre, salti sulla banchina, ti mozzi il fiato
ed esiti. Perdi il coraggio
di lanciarti
di lasciarti
andare,
che la vita non aspetta
non rispetta
i “lasciare scendere prima di salire”
e se ne sbatte
delle tue frette
senza meta,
ti (r)allenta
appena scordi
che c’era prima di te
ci sarà dopo i tuoi impegni,
grande
immensa
e hai paura
esiti
e le porte si chiudono. Non ti resta che aspettare gli altri quattro minuti in banchina
in panchina
in compagnia dei social
asociali
che ti riempiono la home, in casa
ti perdono
imprigionato
aguzzino di te stesso
e dei tuoi pomeriggi
tascabili,
in balia di un esistere
che non sai più impiegare, su quella banchina, a cercare di pianificare l’inatteso, a scrivere liste di cose da fare per scrivere liste di cose da fare e poi, non sapere che fare.

In cinque minuti, posso respirare, grattarmi, parlare, starnutire
o starnutare
o sternutire
cercare sul sito Treccani la disamina su come si dice, infine soffiarmi il naso, leggere, pensare a me al mondo alla mia gatta al pensare, poi zittirmi; di colpo ascoltare il battito del mio cuore.
Cazzo, è veloce.
Cazzo, è troppo lento.
Oddio morirò,
non ho scritto tutte le poesie che avrei voluto, non ho restituito la chiavetta usb a Beppe, non sono ancora stata in India, non ho festeggiato per la laurea, sono troppo giovane, aiuto, fottuti cinque minuti interminabili !
Strazianti.
Strazianti.
Il tempo per massacrare di botte Aldrovandi – e vergognarsi della propria divisa. Cinque minuti per scagionare gli assassini di Cucchi – non per elaborare il lutto della morte di un figlio.
Cinque minuti per morire in un terremoto, magari dopo aver litigato con la propria mamma e non averle parlato per cinque ore, giorni, mesi. Anni.
Cinque minuti per affogare migrante, molto meno per mandare affanculo Salvini.
5 minuti per morire a 13 anni, boccheggiante e palestinese sui marciapiedi di Israele, come fossi un rifiuto, nessuno lo soccorre, qualcuno lo insulta, cinque minuti per caricarne il video online, fatto con un cellulare: trema immobile sdraiato a terra, un pesce rosso fuori dalla boccia, pregava forse, pensava alla sua famiglia, al dolore soffocante, al cielo riverso sopra di lui, che forse non pensa proprio a niente, nel tentativo di ingoiare gli ultimi respiri, ricoperto di sputi, noi stiamo a guardare;
che se esistesse dio
basterebbe
a odiarlo.

Vi batte ancora il cuore?

Cinque minuti per fare un respiro profondo,
distendersi
rilassarsi.
Cinque minuti per cadere dalle scale e bestemmiare sottovoce.
Cinque minuti per scoprire, la mattina, appena svegli, che, nonostante tutto, c’è un cielo blu ad aspettarti oltre le persiane.
Cinque minuti per capire che sono già sei.
Cinque minuti per mentire a chi ti chiede se hai una moneta e ripensarci.
Cinque minuti di connessione col mondo, per sentire tutto e sentirsi in tutto; felici.
Cinque minuti per arrivare in macchina al pub e cinque minuti per
lamentarsi che non c’è parcheggio.
Cinque minuti parlo di poesia
– ho detto –
ma cinque sono passati
e ancora non si sa che sia,
la poesia.

Perché cinque minuti non bastano
a parlare poesia.
Ché la poesia non è
nessuna
delle cose che ho dette.

La poesia
è quello che rimane,
Il gesto fra la parola e il silenzio
Pensiero nella pausa delle virgole
L’adrenalina di un microfono aperto
L’emozione di una viva voce

La poesia è un porto
sepolto
:

Di questa poesia
ci resti
quel nulla
d’inesauribile segreto
   

lunedì 2 novembre 2015

Non voglio toccare stereotipi delle società maschiliste o di una storia millenaria, che vede l’uomo migliore della donna e tutti noi, in qualche tempo, protagonisti e colpevoli. Non voglio finire a fare il rapper e dire che se sei figa, non sarai mai abbastanza figa, e se sei cessa, non sarai mai abbastanza credibile quanto un uomo. Soprattutto, non voglio scivolare nel banale, no.
Voglio, invece, mandare affanculo chiunque si sbigottisca di fronte alla parola: mestruazioni. Cordialmente.
Sì, affanculo e affanculo è ancora poco, perché siete ridicoli e imbarazzante è il vostro imbarazzo.
Lo so, siete in tanti, ma io so essere molto presuntuosa.
Le donne sono meraviglie. Non “belle”, non “carine”, me-ra-vi-glio-se, che vi riempiano la bocca; spettacolari e spaventose, come la vita, come qualsiasi cosa valga il prezzo di questo tempo che ci invecchia.
Le donne – e di solito sono donne proprio per questo – hanno un pertugio, un organo, nel basso ventre, fra le gambe, detta rosa o altri fiori e/o animali allegorici, a cui gran parte dell’arte è stata dedicata. Comunque la si voglia chiamare, porta di giada, fica, vulva, con quella, le donne, possono fare miracoli: oltre a risolvere e innescare guerre epiche (ciao Cicciolina, ciao Omero), anche avere orgasmi multipli, esplosivi, squirtare, dare la vita, procurarsi e spacciare endorfine gratis.
Fin qui tutto bene. Quasi, purché non si alluda a ragazze che si masturbano, purché non si tratti di donne che fanno sesso “come uomini”, perché di entrambe si può parlare solo, con passione ma nascosta-mente, in alcune categorie di siti porno.
Purché non si tratti di qualcuna che conosco.
Purché a scrivere non sia una lei (che vergogna!)…
Che vergogna.
Vergogna, già. Vergognatevi.
Per una vita ci siamo imposti di sottovalutarle, sottovalutarci, abbiamo imparato bene a vergognarci di cosa, di chi siamo. Ora basta.
Ora, è ora di non occultare più le mestruazioni sotto il termine generico e sottovoce di “cose”. Se è così facile ammettere di provenire da uno spermatozoo, è ora che altrettanto semplice sia ringraziare il ciclo di tua madre.
Metti i bastoni
fra le vuote
convinzioni
vincolanti
ma colanti.
Penso femmina
se penso la Luna
se penso la vita
se penso la gioia
se penso l’uomo:
tu, dona,
donna
la meraviglia
che sei motore
di questo esistere. Se
finora
sei stata poesia
– credimi!
puoi esser poeta.