martedì 24 settembre 2019

Avevo meno di dieci anni, quando al saggio di fine anno mi fecero recitare la parte di Giulietta. Un’amica di mamma mi aveva regalato un vestito perfetto, cioè più o meno da dama, color verdone, ricamato in oro, di epoca non meglio identificata, ma che ci frega, tanto dalle suore, era tutto un generico d.C. Entravo in scena trascinandomi dietro il balcone di cartapesta e sempre mamma mi aveva fornito una rosa finta, che aveva fatto con la carta: imparai anch’io, se mai vi capiterà l’occasione, potreste vedermi fabbricare rose con gli scontrini delle bevute a fine serata, ma dovreste essere molto fortunati e anche piuttosto sbronzi, perché mi servono un po’ di petali.
Con quella rosa dovevo dire, in inglese, la frase più famosa di tutta l’opera, anche se ormai indubbiamente superata dalla pubblicità dell’Alfa Romeo. 
Che una rosa, con un altro nome, avrebbe lo stesso profumo.
William, mi perdoni: ma è sicuro?
Juliet, se il Montecchi non fosse stato un Montecchi, ti sarebbe piaciuto lo stesso?
E se lei non fosse stata una Capuleti, lui l’avrebbe amata fino a morirne?
Una rosa, che si chiami cactus, è lo stesso sweet? In fondo, anche lei ha le spine; eppure. 
Oggi, che di anni ne ho quasi il triplo e devo scrivere una tesi, mi scopro ancora a combattere sugli stessi quesiti di quando avevo più caramelle che anni.

lunedì 9 settembre 2019

L’organo più citato – almeno fino a Bukowski. Non so se sia colpa degli Stilnovisti o di qualche contemporaneo fricchettone del Leopardi, ma il cuore è la parte più nominata, disegnata, regalata, delle roulotte di carne e ossa che siamo.
Tutte e due le mie nonne avevano un ciondolo a cuore e quando ero piccola, mia mamma me ne regalò uno di plastica, citazione colta da un rifacimento di un film di Godard, cosa che ho impiegato ventisei anni a ricordare e ancora il film non l’ho visto. 
L’evoluzione si vede nei materiali, ma i simboli non mutano, sono i custodi delle storie che raccontiamo, dei personaggi ora canuti, che hanno ispirato e un po’ causato quello che siamo.
A me ricordava Sailor Moon e come ogni oggetto di quando ero piccola, era magico in virtù dei significati che gli attaccavo. Tipo che io con quello ero una strega e per esempio in metropolitana con papà, i tornelli si aprivano al mio passaggio. Ora che non c’è più papà alle mie spalle, ho imparato che per farli aprire devo usare l’abbonamento. Il cuore, per tanti motivi che prima o poi dovrebbero riempire almeno un libro, è in una scatola che odora di ricordi. 
Forse, anche il simbolo che abbiamo nel petto ha subito una genesi simile.
C’era una volta una bimba, a cui la mamma regalò un cuore di tessuto muscolare, che le batteva nel petto. Quando lo indossava, la bambina si sentiva potente, magica; si sentiva viva, come un personaggio di una storia, che abbia senso. Era chiaro che dovesse diventare la banca dove conveniva accatastare tutto il bene, che aveva ricevuto e che avrebbe potuto regalare.
L’importante è non smettere di indossarlo.

giovedì 5 settembre 2019

Ho alzato il mio primo dito medio a uno sconosciuto. Ero in metro, sulla banchina mi fissavi, ti ho superato, ma sulle scale mobili hai fatto di nuovo per superarmi, ti sei fermato al mio fianco, con l’occhiolino e insieme ai tuoi cinque compari. Non ti ho guardato in faccia, sono una milanese, so bene come procedere impassibile, ho le cuffiette a proteggermi, gli occhiali da sole. Ma in superficie mi sei venuto a fianco, proprio spalla a spalla, a sussurrarmi uno dei soliti, peggiori complimenti.
Mi sono voltata, ti ho guardato, ho sorriso. I tuoi amici ridevano, anche tu e il tuo occhiolino, ce l’hai fatta, hai la mia attenzione, allora eccoti, splendente, imponente al mio fianco, erigersi il mio dito medio. 
Guardalo bene: è tutto tuo. 
Sorpreso? Non ridi più. Non ti va più di dirci che cosa mi faresti? E gli amici, contrariati? Non mi trovi più Mmmbella?
Tu invece rimani lo stesso di prima: un coglione. E siccome io non ne ho nemmeno uno, che mi possa cascare, girare o da darti, per ricordare questo nostro incontro mitico, ora ne prenderemo uno dei tuoi, ammesso che tu li abbia. Lo staccheremo con cura, come fanno con gli evirati in India, ho visto dei documentari, tranquillo, hai una piccola percentuale di sopravvivenza e poi lo metteremo lì dove deve stare: in formalina, sul tuo comodino, a ricordare ogni giorno, a te e ai tuoi amici, che mi avete rotto i coglioni. 
Ho alzato il mio primo dito medio a uno sconosciuto e mi sono sentita molto bene.
Vi consiglio di provare.