martedì 30 agosto 2011

Antologia epistolare da un aldilà. Capitolo I.

Cara Amelia,
mi manchi.
Vorrei poter trascorrere ancora un giorno insieme a te, una sola, intera giornata con te, mia più preziosa compagna.
Ti porterei in campagna per perderci nell’erba alta, aspettando il tramonto, per poi ammirare abbracciati tutte le stelle che la notte sa offrirci.
Desidererei anche rivivere la nostra ultima, normale domenica, una delle tante, abitudinarie, innocenti domeniche che abbiamo vissuto fianco a fianco: svegliarmi in un letto che sa di te, preparare il caffè e attendere l’ora di pranzo sul divano, ascoltando i tuoi movimenti in cucina. Dopo cena, tornare nel letto in cui tutto ha avuto inizio, per assaporare quella piacevole atmosfera di annoiata tranquillità per l’imminente lunedì lavorativo, e baciarti, ancora una volta, prima di spegnere la luce sul tuo comodino.
Quanto vorrei poter affondare le mie dita nei tuoi capelli profumati di primavera; poterti ancora stringere così forte, da sentire il solletico delle tue ciglia sul mio collo.
Non sai quanto mi manchi il tuo morbido respiro, ritmato dal battito lieve del tuo petto.
Amelia credimi, se dico che sei l’unico motivo per cui potrei pentirmi di ciò che ho fatto, e non farti abbattere dalla mia decisione, per quanto dolorosa ti appaia, perché è la migliore che potessi prendere.
Entrambi sappiamo che non ero fatto per vivere. Sono sempre stato sprovvisto d’immaginazione, questa è stata la mia sfortuna.
Mi ricordo che alle elementari litigai con un mio compagno di classe, perché mi ero sdraiato sotto un albero che lui riteneva essere la sua nave. Il piccolo pirata era capace di vedere uno spumeggiante oceano in tempesta tra le radici della vecchia quercia, piantata nel cortile della nostra scuola, e spaventose saette nel cielo completamente limpido sopra di noi; ma io no, e mi ostinavo a sostenere che non ci fosse nulla di speciale in quel posto.
Mentre fino ai dieci anni mi limitai ad ascoltare con profonda sfiducia le storie fantastiche che gli altri mi narravano, crescendo ho maturato questa mia infantile incredulità in uno scetticismo corrosivo.
In questo modo, ho iniziato a pensare che tutto ciò che è astratto, come tutte le mie idee, opinioni, le tesi, i miei pensieri, speranze comprese, non avesse alcun bagaglio di veridicità.
Dopo aver negato la Verità anche a Dio, sono giunto ad asserire che qualunque riflessione oltre la mera sfera del tangibile l’uomo si sforzi di produrre, per me non potrà mai essere più significativa di quelle favole a cui non riuscivo a credere da piccolo.
Così privai la mia esistenza della possibilità di avere un senso.
Iniziai a vederla come un’incomprensibile commedia dell’assurdo, ricolma di bugie; poi, a ventinove anni, quando decisi che non mi andava più di recitare, mi sono tolto la vita. Mi sembrava un interminabile sofisma e io ne ero profondamente nauseato.
Voglio solamente chiederti di perdonarmi se il mio suicidio ti ha causato dolore. Non era mia intenzione ferire l’unica creatura per la quale mi sarei potuto salvare.
Non avrei potuto evitarlo: non sapevo credere ed è troppo difficile continuare a vivere, quando non ci si accontenta di vedere la propria esistenza come un meccanico avanzamento senza meta né motivi per cercarsene una.
Ed è lancinante pensare di doversi alzare ogni mattina, per un’intera vita, incapaci di avere fede anche in se stessi.

Ti ho amata e ti amo, Amelia. Non sprecare le tue lacrime, per piangere un incredulo ragazzo con poca fantasia che, insoddisfatto della fisica, non è stato in grado di inventarsi una metafisica tutta vostra.