martedì 30 novembre 2021

L'articolo delle donne

Siamo bombardati di giornalismo fatto male, al punto che mi domando se uno fatto bene sia poi praticabile e non mi do risposta.

In questi giorni una giornalista è stata molestata in diretta tv e quindi si sono visti costretti ad ammettere che non si fa: assistiamo a uno stuolo di articoli imbarazzanti, che titolano con la stessa professionalità di un ciclostilato in una classe elementare. Per esempio, la giornalista molestata che – ricordiamolo – è una persona adulta con nome e cognome, una professione, che peraltro è la medesima di chi di lei dovrebbe scrivere, è chiamata per nome e basta. Come fosse la compagna coi capelli lunghi del terzo banco vicino alla finestra. 
Il molestatore invece, indagato per violenza sessuale – giusto perché c’erano le telecamere accese – ha nome e cognome.

La donna no, non ha diritto a un cognome, per rimarcare – come se ce ne fosse bisogno – con quanta serietà gli articoli e articolisti si occupano di violenza di genere. 

Ma questa scorrettezza della lingua – beninteso, dei parlanti la lingua, non della lingua di per sé – che si ostinano a perpetrare privilegi e violenze, più o meno consapevoli e più o meno ipocriti, ha tante declinazioni.  

Pensiamo a quanto è difficile dire medica anziché medico. Avvocata, architetta, ministra. Eppure ci riesce così automatico dire donna delle pulizie, che a volte lo tronchiamo in: la donna.

Ci manda così in panico pronunciare i femminili quando toccano privilegi che nella storia sono stati soprattutto maschili che, piuttosto che riconoscere pari dignità al genere, arriviamo a rompere la grammatica che regola i suffissi nei participi: student-essa. Eppure, quando qualcuno si arrabbia perché faccio sentire la mia voce, mi dà della esagerata, non esageratessa. 

Poeta, non poetessa.

Se sui giornali le donne non hanno il cognome, in letteratura barattano il nome col cognome, ma a costo di un articolo determinativo: la Woolf, la Morante, la Szymborska. Non ho mai trovato: il Joyce, il Moravia, il Sanguineti.
Perché l’articolo determinativo davanti a nome proprio è rifiutato dall’italiano standard, quello che dovrebbero parlare i giornali, i manuali e i saggi in uno stato linguisticamente unito – e infatti lo parlano. Allora perché, ancora oggi, i banchi di scuole e università sono ricoperti di saggi e manuali che parlano delle scrittrici come se fossero delle nostre conoscenti, a cui poter usare un regionalismo della lingua, come se fossimo in una classe elementare e la premiata con Nobel che dobbiamo studiare fosse la Greta del terzo banco vicino alla finestra?

Perché Greta e non la giornalista Greta Beccaglia?
Perché la Szymborska, ma non il Sanguineti?
Perché se uno sconosciuto mette le mani addosso a una donna, qualcuno ancora si ostina a dirle di farsi una risata?
Perché abbiamo sempre sentito e detto studentessa, ma ora che abbiamo chiarito che studente è participio sia maschile sia femminile, ci ostiniamo a dire studentessa? E poetessa e avvocatessa…

Solo domande, nessuna risposta. 

Su un forum ho letto quella di un utente particolarmente brillante: perché fa rima con fessa. 

Quante battute che non fanno più ridere.

Quando ci prenderete sul serio?