sabato 31 dicembre 2011

L'alba del martedì

Aurora dalle dita rosate è giunta anche stamane a offrirci il consueto acquerello celeste, pregno di azzurro, blu, rosa, arancio, grigio, bianco e un po’ di rosso.
Nella sua arcaica perfezione l’omerica espressione formulare riesce ancora a dipingere meravigliosamente l’immagine dell’alba, anche se si tratta di un’alba qualunque, distante migliaia di anni da quelle a cui assisterono i coetanei di Odisseo: infatti, anche stamattina, alle prime luci di un qualsiasi martedì, l’aurora, mattiniera pittrice plurimillenaria, ha offerto al cielo le sue rosee pennellate, che ora si stagliano in una vasta fascia al centro di quel grigiume che, dall’alto, osserva minaccioso l’inizio di una nuova giornata, sciogliendosi nelle sfumature sovra citate.
Tra le tante teste illuminate dal bagliore dell’alba, profumato di fragole e arance, c’è quella di Matteo che si spazzola gli incisivi per una buona ventina di secondi, ancora addormentato e confuso dato l’orario talmente poco tardivo, da permettere ai lampioni di rischiarare ancora le vie. Poi, ricordandosi di quando aveva visto staccarsi la dentiera a suo nonno, spaventato dall’idea di guadagnarsi la medesima sorte e perciò preoccupato di non aver dedicato sufficienti energie a tutti gli altri denti, se li lava più in fretta che può, avendo cura di alternare frenetici movimenti verticali e orizzontali finché, interrotto dalla voce di sua madre, dà un bacio al papà, s’infila il cappotto e finisce sullo zerbino con la mamma, al confine tra casa e pianerottolo, tra il profumo soffice dei croissant che dalla cucina ha ormai raggiunto l’ingresso e l’odore pungente del detersivo usato per lucidare le scale.
“Teo, hai preso la merenda?” “Torno subito!”
Corre in cucina, si allunga per raggiungere l’anta del mobile sopra il frullatore, afferra un pacchetto di schiacciatine al rosmarino, con un saltello dà un colpo allo sportello per richiuderlo e, dopo un frettoloso “Ciao papà!”, torna a calpestare il cappello del Babbo Natale stampato sullo zerbino davanti a casa, dove la mamma, tenendo aperta la porta dell’ascensore, sorride perché, prevedendo queste piccole deviazioni, ha imparato a puntare la sveglia una decina di minuti prima.
“Pronto?” “Si, ora si!”
Matteo ha paura di prendere l’ascensore da quando un suo compagno di classe gli ha raccontato di esserci rimasto intrappolato per più di tre ore. Quindi, una volta entratoci, non si spinge sul fondo ma rimane vicino alla porta con la testa sollevata verso l’alto, ad aspettare con ansia che lo zero del pianterreno, illuminatosi, si spenga e un suono acuto dia il permesso di aprire le porticine.
Cinque. Quattro. Tre. Il due sembra tardare ad accendersi: “Non voglio rimanere nell’ascensore tutto quel tempo. Mi scapperebbe sicuramente la pipì e poi c’è troppo poco spazio!” pensa, nel frattempo, il piccolo eroe.
Finalmente due. Uno. “Oggi a ginnastica giochiamo a palla prigioniera, non posso mancare! Dai, dai!”
Zero, ting!
Matteo spalanca le piccole porte di legno cigolante dell’ascensore, corre fuori, attraversa l’androne rischiando di scivolare sulle piastrelle forse fin troppo lucidate, apre il portone, si riempie i polmoni di aria fresca, anzi proprio gelida, e, alzando al cielo i grandi e vivaci occhi color gianduia, li spalanca per accogliere, quanto più può, quel cielo spettacolare che sembra essere stato lì ad aspettare proprio lui.
Con il naso diventatogli già rosso per le basse temperature del mattino, la bocca semiaperta per lo stupore e le pupille fisse e perse nel meraviglioso cielo macchiato di rosa, dirigendosi verso la fermata dell’autobus che lo porterà alla scuola elementare, si rivolge a sua madre: “Mamma, perché il cielo è così bello?”
Un ragazzo, passando di fianco al bimbo e sentendo la sua domanda tanto ingenuamente complessa, sorride, mezzo nascosto dietro la sciarpa blu che sua zia gli ha regalato a Natale.
Stamattina deve camminare più del solito, perché ieri sera ha legato la bici parecchio lontano da casa, in quanto voleva camminare: Lorenzo sente sempre il bisogno di fare quattro passi quando le cose non vanno come vorrebbe, e questo è certamente un periodo che necessita di molto moto.
“Sono indietro con gli esami perché devo lavorare” pensa, andando a recuperare il suo veicolo bipede.
“Se ogni maledettissimo pomeriggio non dovessi stare in quel buco di McDrive a distribuire panini, ora sarei in pari con gli appelli all’università e i miei potrebbero essere fieri di me; finalmente smetterebbero di ascoltare le perplessità della zia.”
Difatti, la zia di Lorenzo manifesta puntualmente la propria altera contrarietà nei confronti della scelta di studiare filosofia ai genitori del giovane, i quali, da quando i risultati del figlio hanno registrato un calo, evidentemente dovuto ai turni da McDonald’s per pagarsi la retta universitaria, hanno cominciato a essere di un parere simile a quello dell’anziana parente invece che sostenere le speranze del ragazzo, sballottato tra hamburger e filosofia.
Da allora, la sentenza “avresti dovuto dedicarti a qualcosa di pratico e utile, come ha fatto tuo fratello” riecheggia nella mente del ragazzo come un martellante mal di denti: “Forse hanno ragione, avrei dovuto scegliere una facoltà che mi garantisse più opportunità lavorative dopo la laurea, oppure sarei dovuto andare a cercarmi un lavoro dimenticando l’università, come mio fratello.
Però cosa ci posso fare se mi piace quello che studio?” riflette, camminando.
“Meno male che ogni giorno, quando smonto dal turno di lavoro, tornato a casa, mi chiudo in camera, accendo la mia lampada da tavolo comprata all’Ikea e incontro i grandi pensatori del passato.
Come potrei rinunciare al mio quotidiano appuntamento con la filosofia, fedele amica da quando, a quindici anni, la conobbi per la prima volta?
Iniziai da Empedocle e poi, ammaliato dai ragionamenti contenuti nel libro di testo che il mio insegnante ci aveva fatto comprare, una pagina dopo l’altra, mi addentrai sempre più in quella che per me rimane la scienza specializzata nella parte dell’uomo più interessante: la sua facoltà di pensare, quella capacità che ci differenzia dalle bestie e ci fa protendere verso il divino infinito. Quell’accidente, onere o onore che si ritenga, che ci rende uomini, insomma. Che cazzo dovrei dire d’altro a mia zia, ogni volta che mi chiede cosa ci trovo di tanto speciale nella filosofia?”
Risvegliato dal freddo inaspettatamente gelido della catena, interamente coperta di brina, che lega la sua bicicletta a un lampione, trova la risposta al quesito retorico nell’emozione provocata dalla visione di quel cielo ceruleo spruzzato di rosso, che infonde speranze e lo guarda dall’alto, avvolto nel suo fascino misterioso e millenario.
Sembra dirgli: “Giovane, ama la filosofia, se ci credi, con lo stesso naturale trasporto con cui apprezzi l’alba”, uno dei tanti spettacoli della natura che pizzicano le corde più interessanti di cui è dotato quel particolare strumento musicale che è l’uomo.
Così, mentre monta in sella alla vecchia Atala di colore azzurro, col manubrio ricoperto di ruggine e il sellino assai scomodo, ma ancora più che funzionante, ripensando a quel bimbo incontrato poco prima, sorride coprendosi il naso con la sciarpa, si avvia verso l’università e, incrociando un attraversamento pedonale, nota un uomo sulla cinquantina che sembra essersi addormentato, appoggiato a un pilastro di cemento vicino al semaforo.
Decisamente più sfortunato di Lorenzo, circa una settimana fa, cercando di accendere l’auto, ancora ignaro del fatto che la giornata non sarebbe andata come stabilito, scoprì che c’era un motivo per cui la sua utilitaria usata era costata così poco rispetto alle altre autovetture disponibili sul mercato: a tre settimana dall’acquisto motore, radiatore e pure il tasto per alzare e abbassare il finestrino di fianco al posto di guida lo avevano lasciato a piedi a causa, secondo il meccanico tempestivamente contattato e assai caro, del freddo. Infatti, il signore è appena uscito dalla metropolitana. È riuscito a resistere al sonno mentre saliva in superficie con la scala mobile, ma al semaforo, che è diventato rosso proprio quando lui è arrivato sul ciglio del marciapiede, non ce l’ha fatta e si è assopito con la testa appoggiata al palo più vicino.
In questo periodo i turni notturni in ospedale gli sembrano particolarmente stancanti, da un lato perché con le feste la gente sembra avere più tempo per farsi o sentirsi male, quindi il pronto soccorso pullula di chi si è ferito tagliando distrattamente il panettone, chi è caduto rovinosamente sugli sci, chi, da quando non deve più pensare soltanto al lavoro, ha notato fastidiosi dolori in qualche punto del corpo, e chi invece, rimasto senza impiego, da quando ha scoperto che non dovrà più pensare al lavoro per un tempo tristemente indeterminato, aspetta l’Epifania, riempiendo le calze dei propri figli con attacchi d’ansia, depressione o sarcastici propositi di rapinare una delle piccole banche nella sua zona.
Dall’altro lato, da quando ha divorziato ed è tornato momentaneamente ad abitare con i suoi genitori, anche se ha qualche istante per coricarsi nel lettino in cui aveva dormito fino ai vent’anni, non riesce mai a prendere sonno profondamente. In pratica, similmente all’ultimo gruppo di malati natalizi, con la mente affollata dai mostri dell’insoddisfazione non riesce mai ad abbandonarsi a un sonno ristoratore, ristagnando perennemente in uno stato di apatico dormiveglia.
Anche adesso, si alza dal suo trono di cemento tenendo ancora gli occhi chiusi. Sa che il semaforo è diventato verde perché non percepisce più il calore all’altezza delle caviglie, emesso dai tubi di scappamento dei veicoli che, fino a un secondo fa, affollavano la carreggiata di fronte a lui; sposta in avanti il piede destro e, mentre ancora non ha toccato terra, apre gli occhi, trascinandosi fino alla sponda opposta di marciapiede.
Vede sempre tutto annebbiato e i suoi ragionamenti sono offuscati almeno tanto quanto i suoi organi di senso: da quando è precipitato in questo stato, gli si presentano alla mente solo immagini e parole apparentemente sconnesse tra loro, mai in quella naturale armonia che dovrebbe popolare una testa genitrice di umani ragionamenti, e sono accompagnate da quei classici salti al cuore che capitano quando si trattiene il fiato oppure, come nel caso del nostro Roberto, ci si dimentica proprio di respirare.
Dice tra sé e sé: “Cornuto, vecchio e dormo da mamma e papà. E la macchina…
Devo mangiare qualcosa.
Quel ragazzo delle quattro non l’abbiamo salvato.” Non respira, il suo cuore rallenta bruscamente.
Poi, inghiotte involontariamente un po’ d’aria e l’organo cardiaco con un doloroso e sordo colpo iniziale si tuffa in un ritmo più accelerato fino a un’altra di quelle visioni oniriche.
In questo modo, ora procede verso casa e, in generale, tira avanti da mesi, oramai.
A un certo punto rischia di scivolare su un tombino gelatosi durante la notte e, pensando “Dannato il meccanico e il suo freddo!”, si rannicchia per tornare in equilibrio, quando sente gocciolare qualcosa di piccolo e viscido sui capelli: un piccione, non uno di quelli più comuni, ovvero di un grigio scuro la cui tonalità non si capisce se sia dovuta a madre natura, al sozzume per cui questo tipo di uccello è rinomato o allo smog, ma uno bianco con una macchia circolare sul petto, ha appena svuotato il proprio intestino sulla capigliatura di Roberto, che sottovoce si lamenta: “Ecco, questa mi mancava. Grazie tante!”
Data la circostanza, il medico in un certo senso incoronato s’incammina verso l’ingresso del condominio più vicino, per specchiarsi nel vetro del portone e tentare di levarsi quello schizzo biancastro che, nonostante il colore tendente più al grigio che al nero dei suoi capelli brizzolati, attira l’attenzione dei passanti.
Allora, mentre con un’espressione disgustata maneggia un fazzoletto, Roberto nota un paramento funebre appeso sulla parete sinistra del corridoio oltre il portone prescelto. Aguzza la vista e, cercando di fare ombra con le mani per ridurre al minimo il riverbero delle luci alle sue spalle, riesce a leggere al centro di quel pezzo di tessuto nero di forma circolare “Brighenti”. La signora Brighenti, una donnina gracile che aveva superato l’ottantina da più di una decade, amica di sua madre che, quando Roberto era piccolo, gli regalava sempre dei buonissimi cioccolatini con involucro di cioccolato bianco e ripieno di crema alle nocciole, è morta.
Il medico si volta e si ferma un attimo a fissare l’orizzonte con le spalle contro la porta nel cui vetro, fino a pochi istanti fa, si stava specchiando.
Le foglie arancioni che l’inverno ha lasciato sugli alberi, che dividono le due carreggiate della strada da poco attraversata da Roberto, si confondono nell’orizzonte infuocato dall’alba: sembrano voler competere con le nuvole nel dare forma al cielo.
Il cinquantenne con le spalle al muro, incamminandosi verso casa, appare più desto.
“Certo che siamo fortunati. Io sono fortunato.” pensa e, finalmente, si affatica per cercare di tenere gli occhi aperti, incollandoli allo sfondo multicolore offerto dall’aurora.
Mentre Roberto va a casa, dove saluterà con un trasporto inconsueto i suoi genitori, si farà una doccia, si sistemerà la barba come non fa da troppo tempo, e, dopo essersi disteso sul letto singolo della sua cameretta, si impegnerà a fare un respiro profondo senza balzi al cuore, il signor Brighenti, Carlo Brighenti, da poco rimasto vedovo, si siede al tavolo della cucina nel suo appartamento.
Fino all’altro ieri, a quell’ora, ogni giorno faceva colazione con sua moglie, che aveva una passione per i fiori: tende a fiori, tappetini a fiori, vestiti floreali, ma soprattutto sempre un mazzo di fiori freschi al centro del tavolo della cucina.
L’altro ieri aveva preso tre margherite gialle, i cui petali iniziano ad appassire.
L’anziano estrae dal vaso una margherita.
“L’altro giorno abbiamo litigato per questa” pensa, accarezzando quel frutto mancato che gli ricorda la sua consorte.
Come quei petali le guance della signora Brighenti erano state macchiate dal trascorrere imperterrito del tempo, ma erano rimaste vellutate e profumavano sempre di rosa grazie a quell’essenza comprata in erboristeria, che Carlo aveva detto di detestare e di cui ora già sente la mancanza; lui che ieri, salutando la figlia, l’ha consolata come se, preparato a quell’inevitabile momento, avesse accettato con serenità la scomparsa della moglie. Ma non era così. Aveva sempre temuto questo momento, però non lo aveva mai considerato seriamente.
Aveva preferito continuare a comportarsi come sempre, inutile bisticcio dopo bisticcio come è tipico di ogni coppia sposata da più di mezzo secolo, anche quando capì che, se una mattina si fosse svegliato da solo e avesse dovuto fare colazione senza la sua compagna, gli sarebbe mancata molto. Tuttavia, preferì tenere la sua gratitudine per sé, perché non voleva diventare uno sdolcinato a novant’anni.
“E ora è accaduto l’inevitabile e irrimediabile.” Proprio così.
L’anziano ripone la margherita nel vaso al centro del tavolo e, appoggiando la mano sinistra stretta in un pugno sul piano, sussurra: “Avrei dovuto ringraziarla più spesso: grazie per le colazioni, i pranzi, le cene, grazie di aver cresciuto i nostri figli, grazie di avermi sopportato per tutti questi anni.
Avrei dovuto dirle che mi piacciono i fiori perché piacevano a lei.” Poi, con voce bassa e tremante aggiunge: “Avrei dovuto dirle tutti i giorni che l’amo”.
Abbassando la testa, guarda la sua mano: mano da lavoratore possente, ruvida dalla parte del palmo e raggrinzita sul dorso, ha impastato acqua e farina per una vita, offrendo pane e focaccia almeno a tre generazioni.
Estraendosi la fede dall’anulare, legge la data riportata all’interno col tatto, perché ha scordato gli occhiali da vista in camera dal momento che non c’è più sua moglie a ricordarglieli; afferrando il vaso di fiori appassiti si dirige verso il cestino della spazzatura ma, prima di aprire l’anta sotto il lavello, dà un’occhiata fuori dalla finestra della cucina.
Non aveva mai notato quale meravigliosa vista offrisse quel pertugio, sebbene abitasse lì da una sessantina d’anni: si gode allora, dall’alto del quinto piano, per la prima volta, la vista sull’orizzonte, priva di ostacoli così da consentire all’aurora di riempire la stanza delle sue incantevoli sfumature, che, simili a un campo fiorito, ricordano al canuto signore sua moglie.
Mentre gli occhi di Carlo vengono lambiti da tiepide lacrime, nutrendosi di quel giallo di infinite margherite e girasoli, del rosa di sterminati campi di garofani, del colore di innumerevoli tulipani aranciati e rose rosse, portati dalle prime luci del mattino, l’uomo appoggia il vaso che ha in mano sul bordo della finestra, senza guardare. Successivamente, dirigendosi verso la porta della cucina con gli occhi ancora inumiditi dalle lacrime, scorge un’enorme confezione di profumatori per armadio all’essenza di rosa, che sua moglie gli aveva ostinatamente infilato tra le camicie per una vita intera. Sorride col mento che gli trema lievemente, si volta a gustare ancora una volta i colori dell’alba che inebriano la sua cucina ed esce di casa.
Andrà a comprare dei fiori, per metterli al centro della tavola prima di fare colazione, oggi come per il resto della sua esistenza, ogni mattina, quando, svegliato dall’alba con le sue inconfondibili tinte, gli sembrerà che lo osservi dall’alto con uno sguardo simile a quello di sua moglie.
Fino a quando gli uomini saranno capaci di ammirare Aurora dalle dita rosate, divina creatrice di un sentimento di speranzosa manchevolezza e che, avvolgendo l’uomo nella sua millenaria beltà, lo spinge per le vie della vita, Carlo uscirà a prendere dei fiori perché possa onorare il ricordo di sua moglie. Roberto cercherà di non farsi sfuggire, adirato e insofferente, la propria esistenza, Lorenzo non smetterà di credere in ciò che ama e desidera e Matteo continuerà a stupirsi dell’indescrivibile bellezza che la vita ha in serbo per lui, per noi.