sabato 28 novembre 2020

Difficile è un aggettivo di cui non mi piace abusare, perché so che la sorte sta sempre lì a origliare e ama giocare al rialzo, ma un anno fa prendevo un aereo, l’ultimo per ora, ed era proprio difficile: difficile era non solo prendere l’aereo, ma sopravvivere, in quelle lunghe giornate, giornate lunghe almeno un anno, a cercare di non dare buca ai primi incontri col dolore.
Ma nonostante quegli impegni, cadenzati e imprevedibili, comunque costosissimi, forse ancora da saldare, io sono andata a diecimila metri dal suolo, poi sono scesa, sono stata tre giorni in una città che non parla la mia lingua, a dire le mie poesie; ho quasi vinto un poetry slam con poeti da parti del mondo più o meno lontane, dato il meglio e il peggio, combinato qualche casino, mangiato male, consumato le scarpe su strade mai battute e poi sono risalita su un aereo e atterrata in un altro viaggio, che ha previsto una pandemia globale, di nuovo a casa.
Se ripenso a quei giorni, provo nostalgia. Della normalità apparente, della folla, di camminare senza mascherina e di non dover rispettare i confini dell’autocertificazione. Ho nostalgia delle persone, delle occasioni, delle poesie a voce alta, dei concerti, persino dell’agitazione un po’, degli abbracci, della stanchezza meritata, di una trama alternativa, che forse non vedremo mai. E oggi, da questo futuro che si trasformerà di nuovo in passato più velocemente di quanto pensiamo, voglio lanciare una sfida alla sorte: che il 2021 sia così bello da mandare in crisi Rob Brezsny. Che ci rimanga nelle memorie come l’anno più felice di tutti, finora – e sono sicura che avrà duri avversari, almeno nella nostra infanzia. Un anno incredibile per la tanta contentezza che ci tirerà le labbra, per quante risate ci alleneranno guance e addominali e gli occhi saranno pieni di pace e entusiasmo. La notte, i sogni faranno a gara di memorabilità con i baci e le parole, che saranno un mettere in comune semplice: felice consuona con facile, facciamo risuonare l’anno venturo di piacere.
Se non dovessimo riuscirci, l’appuntamento è sempre qui, fra un anno, a non smettere di augurarci il meglio per il futuro che ci aspetterà dopo il futuro.

giovedì 26 novembre 2020

Il mercoledì è la vasca dopo cui penso di non avere abbastanza bracciate per tornare alla scaletta. Come se poi, nella mia vita, fossi stata in piscina così tanto spesso da potermi permettere similitudini che sanno di cloro. Di loro.
Vorrei inventare uno strumento che con un tocco proietti fuori di noi tutto quello che abbiamo sotto pelle, compresso fra le cellule, a volte battezzato in idee, storie, voglie, paure, angosce e permetta poi di farle capire anche agli sconosciuti. Tu mi dai la mano, io ti do la mano e in un battito di ciglia ci comprendiamo, ma del tutto: ci prendiamo tutto, ci scambiamo tutti i pensieri, condividiamo i sorrisi e le lacrime che hanno inciso la nostra memoria ram, quelli che ci hanno disturbato la fase rem, ciò che ha costruito così l’umano che siamo e anche cosa o chi l’ha distrutto. Potremmo dire che abbiamo capito un pezzo di noi, di loro. Degli altri.
Invece la piscina è una boccia senza scaletta e io sono solo un pesce rosso con tanta fantasia.
È giovedì ormai, ne sprecherò un po’ per immaginarmi uno strumento che ci permetta di capirci senza linguaggi: forse comprenderemmo che siamo tutti diversi e per questo tanto simili. Dei nuotatori fuor d’acqua.

venerdì 20 novembre 2020

Sono una donna. Ho una vagina, il seno, una a alla fine del nome, come al termine di gran parte degli epiteti che mi si possono dare. Ho lo smalto sulle unghie dei piedi, i capelli lunghi, due gambe lunghe, due braccia esperte ad abbracciare o a incrociarsi, la bocca, piena di denti e desideri, un cuore e un cervello.
Io sono una donna.
Ci sono state giornate in cui avrei preferito non esserlo.
Per esempio alle elementari, quando giocavo a calcio, i compagni mi chiamavano lesbica e le maestre li sgridavano, non perché potessi anch’io giocare a quello che volevo, ma perché per loro quella era una parolaccia.
Avrei voluto essere un ragazzo tutte le volte che al liceo mi vergognavo di sanguinare ogni mese, soffrivo e mi dicevano che è normale, per una donna, e ogni volta che ho dovuto scegliere se vestirmi da troia, da suora, o da maschio.
Avrei preferito non essere una donna, quando all’università un professore mi ha proposto di fare il suo esame in segreto, nel suo studio, e quando ho scoperto che sul mio cv avrei potuto leggere tanti lavori quante avances.
Avrei voluto svegliarmi maschio, se su un palco non mi sono sentita libera di dire o fare il cazzo che mi pare, perché, si sa, la vita è una scuola senza fine e se un tizio con cui vuoi chiudere non esce dalla tua vita, è che l’hai stregato, non che è uno stalker di merda.
Avrei preferito avere un nome che finisce per o, ogni volta che qualcuno mi ha detto che scrivo bene: come un uomo.
Sarebbe stato più facile, non c’è dubbio.
Ma io sono una donna e questo non cambia; deve cambiare quello che mi circonda.
Voglio abitare un mondo in cui per essere una femmina, non debba fare il maschio, voglio pretendere un mondo dove posso avere le stesse possibilità di gioco di un uomo, con o senza vestiti. Io voglio una società per cui non valgo meno, se scopro la mia pelle, se non ho un cazzo, se ho il ciclo, se mi piace fare sesso e l’amore, se posso rimanere incinta e soprattutto per cui, se nel mio utero compare un feto, nessuno a parte me decida cosa farne, nemmeno il signor Iddio, come di tutto il resto di me, immagini comprese.
Pretendo una vita libera dallo stigma secondo cui sono sempre io la responsabile delle mele che mangia Adamo. Io voglio un’esistenza in cui, se ad Adamo mando un video di me che mi masturbo, lui non lo pubblichi sulla chat del calcetto e poi un’altra Eva mi faccia licenziare, perché, non gli umani che compiono un reato hanno torto, no, ma perché le donne come me sono sbagliate: le donne non sono sbagliate. Pretendo che questo sia un comandamento chiaro nella società che mi ha messa al mondo.
Voglio un mondo in cui le donne, coi capelli lunghi o corti, una qualsiasi lettera alla fine del nome, che si innamorano, si disinnamorano, vengono lasciate, lasciano, abortiscono, lavorano, pubblicano il proprio corpo o lo tengono per sé, si filmano, scopano, fanno l’amore, e lo dicono, o lo tacciono, sono tutte giuste. Nessuna esclusa.
Per avverarlo, occorre il coraggio di vivere di conseguenza. È faticoso ed è pericoloso, lo so. Ma bisogna osarlo: compagne di genere, sentiamoci bene e insegniamolo al resto del mondo.

domenica 15 novembre 2020

Ho sfoderato il cappotto pesante, profumato di tintoria, per fare il giro del quartiere. Quasi nessuno ha assistito alla sfilata e ho pensato che siamo tutti la Fondazione Prada: physically closed digitally active. Le parole scorrono così sui led, come un treno sui binari di fronte. Oggi ho costeggiato la ferrovia; mi ha ricordato che il mondo continua a girare anche fuori dalla finestra, dagli schermi. Mi chiedo se abbia questo ruolo per tutti i nonni che ci portavano i nipoti: ricordargli che ancora esistono i posti oltre l’orizzonte, dove per ora non possiamo andare.
Il cielo sopra Milano è un foglio sporco, ci scrivo mentalmente queste parole, mentre il marciapiede è un emisfero di cicche e foglie secche su cui rischio sempre di inciampare. Poi, a un certo punto, finisco i metri. Per non peccare di tracotanza non supero i confini, faccio ritorno, finché la mano per le cose da fare (ormai le mani hanno compiti ben precisi, una per le scarse interazioni col mondo esterno, l’altra per sistemarmi mascherina e capelli davanti agli occhi) mi avvisa che siamo tornate al portone. Anche oggi l’Odissea è tascabile. Con la mano per il mondo interno ripiego il foglio sporco che ho sulla testa. Mi servirà a notte fonda, a fantasticare sul giorno in cui potremo finalmente smentire Prada.

sabato 14 novembre 2020

So che in lockdown ogni giorno è il giorno di lockdown, ma oggi mancano tre mesi a san Valentino e io devo rileggermi Romeo e Giulietta. 
Il san Valentino più significativo che abbia finora vissuto è stato compreso nell'anno più doloroso di sempre e ha compreso nessun limone e un incidente d'auto, quindi capirete che non sono proprio un'esperta in materia. Ma siccome di solito le feste comandate non mi piacciono e quindi con gli auguri non me la cavo granché, devo compensare nei giorni feriali come oggi: allora vi auguro di trovare qualcuno che non sia disposto a morire per voi, ma che sia entusiasta di vivere con voi. Qualcuno insieme a cui tutto sia più facile, non più difficile e con cui riconoscere la commedia persino nella tragedia. Vi auguro qualcuno disposto a farsi da parte pur di preservare la vostra felicità individuale, ma senza orgoglio e con incommensurabile coraggio quando si tratti di poter essere felici, insieme. Vi auguro di trovarlo e anche di saper essere altrettanto per chi se lo meriti. Insomma vi auguro qualcuno da amare senza farne una tragedia.
Nel frattempo, potete rileggervi Shakespeare.

lunedì 9 novembre 2020

Oggi è un giorno difficile, ma non voglio dire perché. Ma mi spinge a constatare, più del solito, che viviamo l’assurdo. Per esempio abitiamo profili virtuali che mischiano foto di morti a foto del culo – un po’ anche il mio. E tutto questo non è sbagliato, ma profondamente distonico. Siamo distonici. Se ci pensi, alla fine siamo proprio un insieme di idee astratte, pensieri altissimi incollati a una manciata di sporchi organi. Siamo l’amore e siamo gli organi sessuali per farlo, divenuti parolacce, sacri e sacrileghi allo stesso tempo, come i ricordi che ci portiamo dentro e il setaccio che usiamo per trattarli. Siamo purissimi e sporchi, per questo osiamo provare a fare l’amore anche dopo l’olocausto.
Da sempre mi chiedo come sia essere qualcun altro, come si stia dentro la testa e nelle diverse parti del corpo, o dello spirito di un altro: se c’è il mio stesso ritmo, se ci sono più immagini, più colori, meno frastuono, meno parole e la stessa Area 51 gestita dal senso di colpa. Se scrivo, lo faccio per capire se il disturbo che sento, lo sento solo io. Spesso la risposta è no e io sospetto di doverle la vita.
Per questo confesso in uno stupido post-it attaccato agli schermi dei social, che oggi, qua dentro, c’è un gran viavai. I dotti lacrimali fanno gli straordinari, attivano la macchina dei ricordi e anche la centralina della vergogna, perché siamo sempre qui a parlarci, fra un post commemorativo e un post con, di e sul culo, e a me proprio non andrebbe di sputarci le creature che mi ballano nel cuore, però lo faccio perché spero – ed è quasi una fede – che possa fare bene e toccare quello che di immateriale abbiamo tutti in comune. Per sentirci meno soli.
Non volevo dire perché a me oggi fa sentire proprio sbagliata mettere il ricordo di mio padre in un posto pieno di cuori come amen nei commenti, frasi di circostanza digitate di fretta, abbracci non dati, fra selfie e foto alle foto di chi i selfie non se li può più fare, invece alla fine l’ho detto. Ho fallito. Ho svelato e ora Maya ha freddo. Perché così è la vita e io sono un uomo, un miscuglio di tragedia e commedia che non si dà pace e non digiterà: buon compleanno, papà. No. Perché ti sento nei polsi ogni giorno, ma non ci sei più e chi dice il contrario, usa male i social.
Più che farti ricordare dal mondo intero, avrei voluto allungare la tua permanenza e ancora, così, ci provo con un’apologia. Se non dovessi riuscirci, daremo la colpa alla mancanza di sintonia o sintonizzazione, ché è sempre colpa della (tele)comunicazione.

sabato 7 novembre 2020

È notte fonda, l'ora in cui nessuno penserebbe di trovarti sveglia, se solo non avessi abituato il mondo ai tuoi occhi spalancati fino a presentire l'alba.
Bevo camomilla, faccio liste indulgenti di cose da fare e guardo video di Obama, perché mi aiuta a credere nella possibilità di svegliarmi domani – e potrebbe interrompersi qui la frase – di svegliarmi domani e trovare un panorama migliore. Intanto alleno il mio vocabolario mentale: ridere, abbracciare, viaggiare, anche solo per la mia città oltre i duecento metri da casa. Che poi per sapere quanti sono ho dovuto chiedere a Google Maps, perché con le distanze non sono mai stata brava, infatti sono ancora qua. Ma è bello a quest'ora essere gli unici svegli. Si può sentire il rumore del mondo, che non si ferma, anche se noi rimaniamo chiusi in casa.
Sarà una relazione a distanza. Alla fine avremo un'intera città di voglia di rivederci e allora rimpiangeremo le ore perse a non dormire, ma non le sentiremo per l'adrenalina di una vita nuova, di nuovo, in un mondo dal panorama forse migliore.