martedì 22 settembre 2020

Lucio Dalla canta La sera dei miracoli dall’altoparlante del telefono, perché la mia auto ha molti optional, come la sauna d’estate e la privacy dei vetri appannati d’inverno, ma non la radio. Ai semafori ho sempre la sensazione che non stia ferma, poi ripenso al libro di scienze delle medie: movimento indotto, non è il nostro treno a muoversi, ma quello sul binario accanto.
Si muove la città.
Comunque schiaccio il freno fino in fondo, mi piace illuminare di rosso chi mi sta dietro e proprio nel mio specchietto retrovisore, vedo i profili di Pilota e Copilota che si avvicinano, fino a diventare il riflesso di una coppia che consuma nel migliore dei modi le attese.
Si baciano per tutto il rosso. Ogni tanto Pilota si stacca per controllare se la fila è ancora la coda al semaforo, o forse quella per imbarcarsi su un traghetto di un viaggio di nozze per niente ufficiale.
È la notte dei miracoli, fai attenzione.
Scatterebbero tantissimi ricordibuoni.jpg. Copilota ride, poi torna a fondersi con la sagoma di Pilota. Tengo a freno il voyeurismo, anche se vorrei scattargli una foto. Mi limito a immortalare il quadretto nel mio hard disk di serie dedicato agli sconosciuti e torno a fissare il semaforo. Da un disco interno vicino, ma diversissimo, estraggo un altro file: papà che mi regala l’Arbre Magique “Ibiza Cocktail”. Si sprecarono le battute. Forse era uno dei tuoi tanti modi per consigliarmi di andare? Ma a partire sono stata sempre più brava con l’immaginazione e anche stanotte vorrei raccontarti dell’asfalto e le sue buche, crateri lunari in circonvalla, delle ombre, che mi inseguono e a furia di immortalarle, un giorno magari si scuciono, di un dolore non mio e che ho pianto in macchina, c’era Dalla, il semaforo, un profumatore per auto e due che sembravano amarsi in così poco spazio, da far esplodere di gioia gli occhi degli altri. Scatta il verde.
È la nave che fa ritorno
per portarci a dormire.

lunedì 21 settembre 2020

Cartoline dalle non-vacanze

Ti vedo. Che è tardi e ancora non dormi. Stai a letto in posizioni sguaiate e digrigni i denti sovrappensiero. Pensi pensieri scomodi, instancabili e complessi, in definitiva indicibili: se li proiettassimo su un grande schermo in piazza, ne andresti fiera? Neanche li riconosceresti tutti. Ti vedo che vorresti toglierti le mutande dall’avvallamento fra le chiappe e che non stai dritta con le spalle. Così invece tette un po’ troppo in fuori, signorina. Io ti vedo. 
Questo è quello che possono installarti, in una zona imprecisata fra capelli e collo, le elementari dalle suore: qualcuno ti osserva, sempre, ovunque e a fondo e non è un semplice voyeur. Lui ti giudica. E tu senti tutto, in un’allucinazione bigotta, che noiosa ti accompagna nelle giornate. 
Questo è quello che possono inculcarti le elementari dalle suore, se non sei la bambina soprannominata Anticristo dalla sua stessa madre: eccomi. Io ricordo che diffidavo di dio, anche quando non avrei saputo formulare questa frase e a scuola abitavo stanze arredate coi crocifissi. Il mio non credo fondava su una sensazione piuttosto chiara: che se dovevo pregare dio più volte al giorno, beccarlo a messa almeno una volta a settimana, non nominarlo e mai contraddirlo, conoscerne vita morte miracoli, confessargli le caramelle mangiate e tutto quello che mi frullava fra i codini, per avere in cambio il suo amore eterno, a sei anni, allora era una grossissima palla – al piede; per omonimia, una bugia. Un po’ come molti mariti, mi dicono. 
Allora conveniva credere ad altro. Agli amici, ai compagni di classe, anche se ogni tanto se ne uscivano coi superpoteri, alla palla da pallavolo. Alle favole che mamma mi leggeva prima di dormire. Alle parole.
Dio, io ti vedo.
Negli occhi dei nostri simili, che non sono sicura siano lo specchio dell’anima, ma so che spesso sono i primi organi che condividiamo. E se solo fossi un’influencer, avrei riassunto tutto in eyes don’t lie e via con gli hashtag, invece vi dico che se credessimo nell’uomo almeno la metà di quanto io non credo in dio, saremmo una comunità con meno mariti, più donne con la schiena dritta e bambini, con le carie, ma sorridenti.

mercoledì 9 settembre 2020

Fine.

Dedico queste pagine ai miei genitori.
Grazie, di avermi dato un nome.

Con queste parole finisce la mia tesi, che ho caricato oggi. Oggi è l’anniversario dei miei. Ma il verbo così inganna, la lingua invece costringe a essere franchi: sarebbe l’anniversario dei miei, se ci fossero entrambi. Gli anniversari di matrimonio a metà non sono previsti, per questo non oso gli auguri, che suonerebbero – anzi, suonano – una battuta di cattivo gusto.
Io però li ringrazio tutti e due, con la sfrontatezza dell’indicativo, perché con le parole si può dire l’indicibile, si può indicare al presente anche chi non esiste che nel passato. E non immaginate quanto manca.
Di seguito una serie di fatti al condizionale. Mi farebbe un regalo, forse direbbe che sono stata brava, con un po’ di sarcasmo, probabilmente litigheremmo, sarebbe contento, ma senza dimostrarlo.
Di seguito una serie di fatti all’indicativo. Mamma pensa a fare tutto anche per te, compreso litigare, il regalo lo voglio e voglio anche saltare la siepe durante una pandemia globale. E poi sai cosa ho capito di aver ereditato? Che siamo proprio bravi a non dare a vedere quando, quanto siamo felici.
Ma i figli esistono per rompere, quindi adesso confesso che sento dentro di me una nave che vuole prendere il largo, che nonostante tutto a qualcosa e a qualcuno ancora credo, come che ogni giorno, alla fine, è un bel tramonto, su cui scrivere poesie e correre in posti che non so, per regalarle a chi ancora non conosco, ma voglio scoprire. E alla fine va bene anche il dolore.
La foto di laurea mi sembrerà per sempre più vuota, perché ciò che è prezioso, spesso ha un prezzo.
Grazie, mamma. Grazie, papà.
Per esserci ed esserci stati, ed esserci.
Grazie a voi oggi posso dare nomi alle cose e scusatemi se ancora non ho imparato bene ad amare, però voi siete l’origine di ogni tentativo.

domenica 6 settembre 2020

Ansia e panico sono parole abusate, al punto che in qualche modo di dire le intendiamo sinonimi di fico: cioè, da panico, zio. Per compensare cerco di usarle il meno possibile. Per anni non le ho nominate, anche se ci convivevo, ripromettendomi che un giorno avremmo fatto i conti, a parole e non numeri, come al solito, per spiegare a chi non sa com’è rimanere intrappolati sotto la propria pelle, senza trovare l’uscita, mai. Forse quel giorno è arrivato, forse è persino passato, forse il benessere psicofisico è soltanto una chimera di questo millennio, comunque se hai un disturbo di panico, quando poi non ce l’hai, te ne accorgi ed è come riemergere dalla spuma delle onde. I ricordi di ogni volta che hai pensato di morirne restano sassi sulla battigia e le onde possono ingrossarsi, di nuovo, sempre, lo sai, ma capita persino di riuscire a non pensarci e allora la vita diventa una corsa a perdifiato di quando eravamo bambini e ogni pezzo di mondo sembrava giusto così, come nei Lego. Ecco, ci auguro una stagione con più amore che ansia, una di quelle che ricorderemo con scetticismo quando le cose si rimettono male, ma ora ci spacchi le guance di sorrisi involontari. Nel frattempo, c’è da accontentarsi di essere una ragazza da panico.