sabato 30 aprile 2022

Come stai, in una parola? 1

[Sul mio profilo Instagram ho usato il box domande per chiedere: Come stai, in una parola? Alcune risposte sono diventate spunti per i seguenti brevi testi.]

Zukunftsangst
Tornare indietro, anche di poco, per addormentarmi guardo le foto di quando ero piccolo, la nonna parlava tedesco, mi piace pensare al passato, soprattutto se non l’ho vissuto, Foscolo mi pare, la letteratura classica per consolare del presente, no? Boh, la nonna, c’era una parola: Zukunftsangst. Ho paura di quello che non conosco, il futuro mi fa paura, dicono che è dei giovani perché vogliono sbarazzarsene, perché è una bomba in una scatola chiusa, io ho paura di domani, del secondo che è ora e non so dove va a finire, e quello dopo e quello dopo ancora, del sogno che sta per arrivare, forse, incubo. 

Gnocchi

La stanza si è riempita di parole e sguardi, come un lampadario invisibile e pesantissimo, appeso a un filo. Poi le parole sono sparite e sono rimasti soprattutto i suoni, senza senso, prima incalzanti, poi più alti, fino a urlati. Silenzio. Nei piatti gli gnocchi sono diventati pezzi di neve e grandine. Gli occhi non si incontrano più e le bocche sigillate guardano i piatti, che assistono al litigio più infame della storia del 3C. 


Accartocciato

Mi sentivo al sicuro, caldo, accarezzato, importante. Avevo una ragione per continuare a vivere e mantenermi presentabile, stirato, pulito, in ordine. Uscivo ogni ora e potevo rientrare nel posto sicuro, sicuro che ci fosse una ragione. Ora è freddo, buio e polvere. Ieri G. mi ha accartocciato e buttato nel bidone della carta. Insieme a fazzoletti sporchi, tovagliolini e un cartone della pizza non ho più senso e so che nessuno avrà memoria della lista di cose da fare che mi aveva scritto sulla pancia di quadretti e cellulosa. 


Swish

Il vento parlava ai poeti del Novecento, ai duemilleschi forse resta la nostalgia del silenzio e lo smog. A questo penso, aspettando il treno ogni sera, come se potessimo davvero scrivere i pensieri, come se pensassimo davvero come parliamo, comunque in sottofondo un gran freddo e a frusciare solo gli altoparlanti mal funzionanti, mi sale il mal di testa…

– Swish. 

– Come?

– Il vento. Il vento fa swish. 

Annuisce imbarazzato. Potrebbe essere l’inizio di un film, forse alla fine chiama la vigilanza perché non è rassicurante un estraneo che ti dice swish sulla banchina, ma pensa tutto e niente di queste parole. Guarda una cartaccia sui binari: volteggia. 

 

Verza

Piove. Silenzia il telefono. Sulle soglie dell’orto non odi parole che dice metalliche, nei vocali velocizzati, di stress metropolitano, ma odi parole più nuove, che parlano gocciole e foglie: ascolta. Piove. Sulla verza, che abbraccia la sua verzura, mentre noi andiam di aiuola in aiuola e il tran tran non è che un ricordo. Qui l’unico suono umano concesso sono respiri. Taci. Baci. Piove. 


Pesante

Il laghetto del parco è uno specchio di cielo riflesso. Con qualche foglia fra le nubi e i pesci che volano, sembra un acquario di qualcuno con molta fantasia e tanta voglia di disorientare Nemo. Si aggiunge anche la pioggia e le gocce, che mi chiedo fino a che grado di profondità mantengano la loro identità, prima di diventare laghetto anche loro, come le gocce d’acqua che già c’erano, le foglie, i pesci, forse anche le nubi, poi il suono di qualcosa di più pesante: il telefono di una ragazza ha fatto spluf. Lo guarda, nuovo sasso sul fondo, o forse anch’esso acqua ormai e lei, al contrario, se ne va più leggera. 


Stanca 

La musica esce stanca dalle casse. È tardi, talmente tardi che forse questo tardi si può chiamare presto e la gente è già a letto, o ancora a letto. Anch’io sono stanca, ma non abbastanza per trascinarmi a letto – o forse troppo stanca per trascinarmici. 

Vorrei chiudere gli occhi, riaprirli con il sole e dieci anni di meno, un futuro più lungo e la storia – e le storie – ancora a trama aperta, migliorabili. Sono stanca degli antagonisti e del genere tragico e che, nonostante tutto, per sopravvivere, ci si debba convincere che siamo in una commedia, scritta al buio. 


Astronauta

La Luna è vicina, incorniciata, a portata di mano; una perla imperfetta e luminosissima. Vorrei ricordarmi più spesso quanto sono piccolo e quanto piccolissime siano le pietre che mi appesantiscono la testa, polvere, rispetto all’immensità del possibile, che alla fine è proporzione con la nostra immaginazione: basta allenarla per tentare quello che sembrava impensabile.

Come un astronauta in missione, D. dà le spalle al poster della Nasa. Per la prima volta da quando si è trasferito, nota una macchia a forma di viso sul pavimento. Sorride. Domani si alzerà e sa che cercherà di non calpestarla. 


Male

Male male male, pensa. Si accorge di aver schiacciato il tappo della penna fino a imprimersi il tondino nel pollice. Ora pulsa. 

La campagna non sta andando come dovrebbe, dopo quattro stage non retribuiti, un full time che pagava solo l’affitto, gli straordinari, i fine settimana da cameriera e le gambe gonfie, finalmente un posto decente, ma la campagna non sta andando come dovrebbe, nonostante la luce nella sala conferenze entri come in un romanzo. 

– It’s a boy?

– Yes.

It is a male, pensa – non capirebbero, vivere lontana dalla lingua madre oggi dà la nausea. Forse anche la pancia le pulsa. 

– Congrats!


Recuperando

L’asfalto gocciola, oggi il caldo lo scioglie e le sneakers di migliaia di corpi asciutti e muscolosi lo modellano, passo passo. Mai avrebbe pensato di partecipare a una maratona e mai avrebbe pensato di non arrivare ultimo, ma A. marcia, non si ferma e sta recuperando posizioni. Mentre corre guarda avanti, ma non vede niente di preciso, corre e basta, tutti i sensi si sono rivolti all’interno: si ascolta, sa che arriverà al traguardo a un certo punto e allora lì, sì, si fermerà, starà male qualche secondo e dopo essersi appoggiato all’asfalto caldissimo, i palmi all’ingiù e gli occhi all’insù, vedrà, vedrà che ce l’ha fatta. Può spuntarla dalle cose da fare almeno una volta nella vita. Realizzerà che si è allenato, è andato avanti per ore, senza realizzarlo, poi solo pochi minuti, secondi forse, alla fine, ha visto e vissuto davvero il presente. Esattamente come tutti giorni, anche quando non indossa le sneakers. 


Nevica

Qui la primavera è arrivata inattesa, come al solito, ho ancora la giacca invernale e le calze pesanti, non ti dico al sole che caldo. Pensa che sono proprio dietro scuola, al parco, ti ricordi quando venivamo qui con i libri di chimica? Finivamo per non capirci niente e tanta era la luce che quasi non riuscivamo a leggere le pagine, tutte bianche sul prato, e le brioches alla nutella del bar che c’era? Tu avevi sempre il telo, io non portavo nulla. L’acqua forse... Pronto, ci sei ancora?

Sto passando sotto i mandorli, quelli di fianco alla statua della tipa, con le panchine intorno. Col vento perdono petali, sono ancora bagnati per l’acquazzone. Praticamente nevica. Da te com’è?


Intrappolata

Mi dispiace leggerti così. Forse dovremmo smettere questa corrispondenza, le lettere sono per i vecchi, o i morti giovani e a te invece serve sole, vive voci e qualche amore sbagliato. Me li racconterai quando verrai a trovarmi qui. 

Vedi, tesoro, quando avevo la tua età, mi sentivo intrappolata.

Non capivo che era una bugia per compensare la paura grande che mi procurava la libertà di avere ancora tutti gli anni davanti. Ascolta la tua vecchia nonna. Da’ tempo al tempo, vivi più che puoi, come puoi, non rimproverarti mai. Un giorno ti sveglierai e con gli occhi ancora socchiusi penserai di essere a un passo dalla felicità. Invece, sarai già felice, ma tu non dirtelo. 


Grandinata

A. non usciva da nove giorni. Non sono tanti in confronto ai lockdown, ma stavolta non ha mai mosso le tapparelle: dev’esserci stato più del lavoro e della pigrizia. A me fa strano chiedere il numero alla mia dirimpettaia, quindi fingo di farmi i fatti miei. Mi limito ad andare tutte le mattine sul balcone e controllo se qualcosa nel palazzo di fronte, allo stesso piano mio, si è mosso. 

Stamattina una finestra era aperta a metà. Vorrei appendere un cartello e scriverle CIAO! Anch’io a volte non voglio alzarmi. A volte spesso. Ma mi sento stupida e il cartello forse neanche lo vedrebbe.

Spero abbia trovato qualche chicco di ghiaccio ancora sul davanzale e si sia stupita di come la città sembri un cocktail dopo la grandinata. 


Felice

La sala è piena, gente seduta, gente in piedi, avevamo paura che dopo il covid non avremmo più saputo vivere come prima, invece quando siamo insieme dimentichiamo l’angoscia e torna la voglia di parlare, abbracciare, incontrare. Si fanno strada fra i tavolini e raggiungono gli altri due. Un appuntamento a quattro non è mai una buona idea, ma da qualche parte bisogna riniziare. 

– Ciao!

– Ciao. 

– Lui è Felice.

– Ciao, piacere.

– Piacere, ti senti rappresentato dal tuo nome?


Colla

Ieri ho rotto un vaso. Fanculo Pandora, ho giocato al puzzle dei cocci e l’ho ricostruito, ma maledetto attaccatutto, di nome e di fatto; ho ancora la colla sulle dita, la sento come se potessi toccarmi senza toccarmi – domande da bambini saggi, alla fine noi non tocchiamo sempre noi stessi? All’epoca però la colla era vinilica e ci divertivamo a strapparcene le pellicine dalle mani e che buono quell’odore un po’ tossico. 

Stasera c’è la pizzata con i compagni di scuola. Mi chiedo cosa penseranno dei miei polpastrelli ruvidi. Avrò una stretta graffiante. Il vaso mi guarda, la pianta ringrazia. Non mi interessa cosa pensano gli altri, non siamo più a scuola e mi sento ancora bambina ma, per carità, non voglio essere saggia. 


Scrocchiarello

– Scrocchiarello!

– Come prego?

Il capo lo fissa per qualche secondo e con una coreografia degna delle più inquietanti esibizioni di nuoto sincronizzato, anche il resto dei colleghi si volta a fissarlo. F. ha sonno, è l’ultima riunione della settimana e il cambio di stagione inizia ad avere un significato dopo i trenta. Non ha del tutto realizzato di aver emesso suoni dalla bocca, ancora spera di averlo solo pensato, mentre fissa concentrato il blocco di fogli davanti a sé, con la tavola rotonda a contemplarlo, ma il collega di fianco interrompe ogni speranza, sottovoce:

– Come nome di un farmaco per l’artrosi?


Lisbona

In Rua dos Douradores soffia un vento secco, caldo, S. si sente abbracciata, è così tutte le volte che atterra a Lisbona e per un attimo si sente sveglia e calma, un equilibrio che a Milano sembrava impossibile. Tira fuori il telefono, fa una foto alla via, apre whatsapp, cerca la chat e a memoria digita Pessoa: Penso a volte che non uscirò mai da questa Rua dos Douradores. Invece. Guarda il destinatario, ma prima di abbassare il dito sull’invio, alza lo sguardo ai fili del tram: questa sera è proprio una buona sera. 


Strettocanaglia

– Signora, siamo in ritardo.

– Su su, veloci, finite di preparare, la carrozza è già fuori.

– Strettocanaglia!

– Clara! Non sono parole che si addicono a una signorina.

– Ma mamma!

– Nessun ma, quel corsetto più di così non può stringersi. Per favore, vogliate allacciarlo, grazie. E veloce infilati il vestito, che tuo padre è già in carrozza e Dio solo sa quanto odi aspettare. Dov’è tuo fratello?

– Non so.

T. era già all’ingresso, faccia a faccia con il ritratto del bisnonno. Estrae l’orologio dal taschino, guarda l’ora, guarda l’antenato, sente il padre gridare dalla carrozza e decide di slacciarsi l’ultimo bottone della camicia.

martedì 26 aprile 2022

Quando diventiamo cattiva compagnia per la nostra ombra, andiamo al mare. 
In valigia lo stretto necessario. Una penna, l’odore della pioggia, il tetris che gioco con i libri della mia libreria, un po’ di calma ingiustificata e di stupidità. Tutti i ricordi allegri d’infanzia, le cose che non dico e il rumore che fa la mandibola quando mi concentro fino a dimenticarmi del corpo. Un corpo senza colpe, inizio solo ora a volergli bene, a dirgli che mi scuso e lo ringrazio di essere sempre con me. Potremmo diventare la mia storia più lunga.
Lo ammiro, mentre infila nella borsa anche un album di tutti gli amori tentati, con le rispettive colonne sonore, insieme a una trousse di buoni propositi. 
Un giorno vorrei trovare l’incoscienza di diventare madre. Porterei mio figlio a giocare alla Besana, di domenica, e così, sotto il sole, farei pace con gli uomini. Soprattutto, penso, mi impegnerei a non diventare mai la causa per cui si senta senza senso: in me troverà solo spiegazioni convincenti alla bontà della sua esistenza, perché (ho imparato a mie spese) da lì nasce il bene, quello vero, da qualcuno che testimoni che siamo meritevoli di felicità. Di desiderare, immaginare e sentire tutto quello che vogliamo – alla faccia dei ricchi. Il resto sarà altro amore come viene, fra errori e gioia, come quello che ho ricevuto e replicato. 
Mi porto anche la fantasia di andare alla Besana, vecchia, senza nessun figlio, a trovare comunque il modo per praticare i buoni propositi di cui sopra.
Metto via anche le epifanie di una paesaggiata con la musica nelle orecchie e i pensieri registrati dal cuscino quando fatico a prendere sonno, perché mi rigiro e sorrido. Un solo ricordo cattivo, medio-grande, scelto con cura e ripiegato stretto, che serva a raddrizzarmi la schiena ogni volta che, per sbaglio, permetta ancora di rimproverarmi – a me o ad altri. 
Tu cosa porti?
Andiamo al mare a scucirci le ombre, che di tanto in tanto diventano strette per contenerci tutti. Hanno bisogno di vacanze – e noi lo stesso. 
Le idee più ingombranti le spediamo poi col camion dei traslochi, oppure le lasciamo proprio a casa, che tanto non servono per svestirci e stare bene. 

lunedì 11 aprile 2022

La barra lampeggia sul foglio elettronico come una bradicardia: vi siete mai chiesti quante volte riappare e sparisce?
Io no.
La risposta è sessanta al minuto.
Fuori il cielo è turchese, le persone praticano attività che fino a un anno fa erano vietate: vanno al parco insieme, si ammassano, si toccano. Dentro, qualcuna sta perdendo i suoi anni migliori davanti al computer.
Vorrei poter dire che non sono io, che adesso che ho letto tutti i libri e guardato tutte le serie tv, ho finalmente imparato che la vita è una ed è mia e ora mi vesto, ma subito, poco, perché la primavera mi guardi là fuori, mi scaldi la pelle pallida e mi ricordi che sono giovane, anche quando invece mi sento solo stupida e prendo la carrozza, il diadema e pure i guanti da cavallo, che mi fa sorridere pensare che a conoscermi oggi nessuno direbbe che ho fatto sei anni di equitazione, infatti in pochi lo sanno, in pochi si accorgono che abbiamo la fortuna di vivere molteplici vite in una, e prendo anche un mazzo di fiori e vado a cercarmi uno spasimante, con cui riempire le giornate e le stanze e i parchi e far finta di sposarci, ma ogni giorno in un film diverso, con una persona diversa. Perché il problema è la noia, è sempre stata la noia e il coraggio di contraddirla.
Per fortuna è arrivata la primavera a ricordarmelo.