In fondo al vagone, incastrata
fra le pertiche, si aggrappa un’anziana in sedia a rotelle.
Crocetta, fermata Crocetta.
Le porte della metro sbattono e tranciano gli arabeschi fumosi, disegnati dalla
bombola agganciata allo schienale della sua carrozzella. Un odore farmaceutico
torna a spandersi tra i passeggeri.
Lì vicino, un ragazzo si schiaccia nell’angolo contro la cabina vuota del
conducente e con la bocca socchiusa si sventola una mano davanti al naso
raggrinzito. Dà un’occhiata alle feritoie della bombola, da cui sale il vapore
biancastro, ai tubicini umidi che vi fuoriescono, alla bandana intorno alla
testa glabra seduta tra le ruote; poi torna a fissare il suo IPad e gli sussurra:
“Che schifo.”
Perpendicolare al tablet una quarantenne, appoggiata sul bordo del sedile,
continua a chiedere a chi le sta attorno: “Vuole sedersi? Lei vuole sedersi?
Vuole?” Insiste con la borsetta sulle ginocchia in procinto di alzarsi.
Quando le si avvicinano un viso dai tratti asiatici e un paio di codini,
aggrotta d’improvviso la fronte, appoggia la schiena al sedile e accavalla le
gambe. Rimane in silenzio.
Scioglie la profonda ruga in mezzo alle sopracciglia e riprende: “Vuole il mio
posto?”, solo una volta che la cinesina si è spostata: ha avvistato un posto
libero più avanti quindi, zitta zitta, si fa largo, urta spinge sgomita e
calpesta. Si siede di fianco a due coetanei.
“Cinque euro che venerdì me la faccio.”
“Ma va’, non puoi. Farebbe vomitare anche mio cugino.”
“Oh, allora? Ci stai o no?”
Prossima fermata Missori.
“Bella. Zio, hai appena buttato cinque euri.” Con una mano dà un cinque al
compare e con l’altra si tasta il cavallo dei jeans.
Dai sedili di fronte, intanto che si mangia le unghie con le gambe divaricate,
un sorriso giusto accennato contempla la scena e non si accorge delle guance
vermiglie, che portano la gonna seduta al suo fianco. Infatti, in piedi, appeso
al corrimano tubolare, un uomo le continua a fissare, mentre si passa la lingua
sulle labbra inarcate, come a pronunciare una lunga O.
Next stop Missori, doors open on the
right.
La gonna si dirige verso la porta successiva a quella dietro alla bocca che
la segue con lo sguardo. Quando estrae la mano destra dalla tasca per reggersi,
le scivola a terra un fazzoletto accartocciato. Lo osserva di sfuggita, si
guarda intorno, tranne che nella direzione di chi sa essere incollato alla sua
faccia sempre più rossa, poi torna a fissare il suo riflesso nel vetro della
porta.
Il rifiuto catalizza l’attenzione di un paio di occhiali in giacca e cravatta.
L’uomo che li indossa nell’ultima schiera di sedili scuote la testa; in seguito
riprende a gridare al suo auricolare: “Mi senti? Io ti sento, tu mi senti?
Adesso?”
Missori, fermata Missori.
Ora che ha percorso il treno fino alla prima porta dell’ultimo vagone, un
bicchiere tintinnante smette di zoppicare e allunga il passo, per riuscire a
scendere dietro alla proprietaria del fazzoletto.
Nella fretta sfiora un soprabito cremisi a sinistra delle porte, il quale con
un gesto fulmineo tira indietro i piedi fino a sbatterli contro il gruppo di
sedili su cui si è accomodato. La botta echeggiante lo distrae dalla lettura della rivista su cui era chinato: si volta a lanciare un’occhiata al mendicante,
poi si rigira a testa alta, sistema frangia e trucco sciupati dalla violenta e
improvvisa torsione.
Prima di abbassare di nuovo lo sguardo sulle pagine del periodico, lo perde
nella gigantografia di un film, che gli provoca una risatina acuta e ritrae un
orsacchiotto, di spalle, con in mano una bottiglia di birra, intento a pisciare
in un orinatoio.
EEEE
Sollecitato dal suono di chiusura delle porte, il trench ritorna a curvarsi
sulla rivista.
Le porte sbattono.
“Mi senti?
Ehi, ciao! Tesoro, scusa, c’è un mio ex collega. Ci sentiamo quando arrivo.
Pronto? Pronto?
Allora come te la passi?”
“Tutto a posto, grazie.
Ma ‘sta puzza?”
“Dev’essere la sedia a rotelle là in fondo.”
Dietro all’auricolare ancora nelle orecchie degli occhiali in giacca e
cravatta, il vetro unto del finestrino è ricoperto di disegni fallici e
graffiti.
In alto, appena sopra la prescrizione di non appoggiare le mani, si staglia una
manciata di lettere sottolineate da una linea gialla: “mai stato così estraneo
a me stesso e così presente nella realtà.”
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