Lo so, credi che nessuno ti stia guardando, speri che l’occhio del mondo si sia chiuso un istante, proprio ora, su di te.
Ma io ti vedo, ti vedo e osservo il tuo indice scavare fino alle mucose più recondite del naso.
D’accordo per il freddo, le polveri sottili, l’influenza dilagante e i fazzoletti che non sai dove mettere quando esci di casa, però niente può giustificare l’intera falangina conficcata nel naso. Poi, ti prego, evita almeno di accompagnare al gesto quell’espressione tra il tonto e il compiaciuto con la fronte raggrinzita e il labbro superiore disteso.
Sul serio pensavi che nessuno ti avrebbe notato lì, sul marciapiede, alla ricerca degli organi interni passando per le cavità nasali?
Sai, forse un po’ ti capisco; le persone sembrano sempre più miopi anche a me, e non mi riferisco solo alle numerose nuove leve degli occhialuti, ma soprattutto ai ciechi con tutte le diottrie, quelli che guardano senza vedere.
Prendi per esempio la famiglia che abita qui di fronte. Dà il meglio di sé ogni sera, quando tutti e quattro i componenti sono seduti intorno al tavolo della sala e ingoiano la cena rapiti dal televisore: così, senza nemmeno dare una sbirciata a cosa contenga il piatto che si ritrovano davanti, imbambolati di fronte ai programmi dopo il Tg5, come se ognuno covasse una relazione di sangue con quella scatola parlante sopra il mobile piuttosto che coi commensali. Figurati che non portano a tavola nemmeno acqua, vino, saliera, pepiera, niente oltre al piatto di ciascuno, tanto nessuno si disturberebbe a chiedere o a rispondere.
Giusto durante la pubblicità scappa qualche monosillabo e domanda banale.
“Tutto bene oggi a scuola?” “A-ah.”
“Hai spostato l’appuntamento a mercoledì?” “Uhm-uhm.”
“Posso andare a dormire dalla Fede?” “A-ah.”
Ti lascio immaginare lo smarrimento quando, qualche mese fa, c’è stato un blackout, quindici minuti di silenzioso imbarazzo. Il felpato frastuono della ribellione dei loro corpi ancora pensanti, nonostante tutto; la muta carcassa d’idee mai concepite, minacciosa alla luce delle candele troppo taciturne. Il quieto affanno della loro incomunicabilità, finché non è tornata la corrente e allora hanno potuto ricominciare a ridere, da soli, insieme alla tv.
Insomma, ti capisco se hai pensato che nessuno spettatore della perlustrazione nasale si sarebbe accorto di te, lì, davanti al negozio.
E adesso che fai?
Davvero glielo fai appendere?
Permetti a quel ragazzo di attaccare la faccia di Maroni e la sua “Lombardia in testa” alla porta del tuo esercizio commerciale? Ma allora sei miope anche tu. Pure tu sei affetto da cataratta morale, l’incontrollabile epidemia italiana del ventunesimo secolo.
Sai, sulle malattie c’è poco da scherzare, come diceva mio nonno, c’è poco da ridere: infatti, a vedere quel manifesto sputato sulla vetrina e a pensare che domenica ci saranno le elezioni, mi viene tutto tranne che un sorriso.
Troppo spesso ho deglutito il rigurgito che facce come quella sulla tua locandina mi hanno provocato, ogni volta che decidevano che i capisaldi della società civile dovessero valere meno di una villa al mare; ogni volta che dimostrano che il disonesto batte l’onesto, l’ingiusto il giusto, l’incoerenza la correttezza e perciò infangano non solo le pagine dei quotidiani ma anche quelle della storia umana.
Ogni volta che hanno fatto promesse e non proposte, hanno pronunciato smentite, mai conferme, hanno detto barzellette al posto di condoglianze. Quando hanno iniziato a credere che al denaro servissero gli uomini, non il contrario, e hanno venduto, a caro prezzo, l’inestimabile.
Ma io ti vedo, ti vedo e osservo il tuo indice scavare fino alle mucose più recondite del naso.
D’accordo per il freddo, le polveri sottili, l’influenza dilagante e i fazzoletti che non sai dove mettere quando esci di casa, però niente può giustificare l’intera falangina conficcata nel naso. Poi, ti prego, evita almeno di accompagnare al gesto quell’espressione tra il tonto e il compiaciuto con la fronte raggrinzita e il labbro superiore disteso.
Sul serio pensavi che nessuno ti avrebbe notato lì, sul marciapiede, alla ricerca degli organi interni passando per le cavità nasali?
Sai, forse un po’ ti capisco; le persone sembrano sempre più miopi anche a me, e non mi riferisco solo alle numerose nuove leve degli occhialuti, ma soprattutto ai ciechi con tutte le diottrie, quelli che guardano senza vedere.
Prendi per esempio la famiglia che abita qui di fronte. Dà il meglio di sé ogni sera, quando tutti e quattro i componenti sono seduti intorno al tavolo della sala e ingoiano la cena rapiti dal televisore: così, senza nemmeno dare una sbirciata a cosa contenga il piatto che si ritrovano davanti, imbambolati di fronte ai programmi dopo il Tg5, come se ognuno covasse una relazione di sangue con quella scatola parlante sopra il mobile piuttosto che coi commensali. Figurati che non portano a tavola nemmeno acqua, vino, saliera, pepiera, niente oltre al piatto di ciascuno, tanto nessuno si disturberebbe a chiedere o a rispondere.
Giusto durante la pubblicità scappa qualche monosillabo e domanda banale.
“Tutto bene oggi a scuola?” “A-ah.”
“Hai spostato l’appuntamento a mercoledì?” “Uhm-uhm.”
“Posso andare a dormire dalla Fede?” “A-ah.”
Ti lascio immaginare lo smarrimento quando, qualche mese fa, c’è stato un blackout, quindici minuti di silenzioso imbarazzo. Il felpato frastuono della ribellione dei loro corpi ancora pensanti, nonostante tutto; la muta carcassa d’idee mai concepite, minacciosa alla luce delle candele troppo taciturne. Il quieto affanno della loro incomunicabilità, finché non è tornata la corrente e allora hanno potuto ricominciare a ridere, da soli, insieme alla tv.
Insomma, ti capisco se hai pensato che nessuno spettatore della perlustrazione nasale si sarebbe accorto di te, lì, davanti al negozio.
E adesso che fai?
Davvero glielo fai appendere?
Permetti a quel ragazzo di attaccare la faccia di Maroni e la sua “Lombardia in testa” alla porta del tuo esercizio commerciale? Ma allora sei miope anche tu. Pure tu sei affetto da cataratta morale, l’incontrollabile epidemia italiana del ventunesimo secolo.
Sai, sulle malattie c’è poco da scherzare, come diceva mio nonno, c’è poco da ridere: infatti, a vedere quel manifesto sputato sulla vetrina e a pensare che domenica ci saranno le elezioni, mi viene tutto tranne che un sorriso.
Troppo spesso ho deglutito il rigurgito che facce come quella sulla tua locandina mi hanno provocato, ogni volta che decidevano che i capisaldi della società civile dovessero valere meno di una villa al mare; ogni volta che dimostrano che il disonesto batte l’onesto, l’ingiusto il giusto, l’incoerenza la correttezza e perciò infangano non solo le pagine dei quotidiani ma anche quelle della storia umana.
Ogni volta che hanno fatto promesse e non proposte, hanno pronunciato smentite, mai conferme, hanno detto barzellette al posto di condoglianze. Quando hanno iniziato a credere che al denaro servissero gli uomini, non il contrario, e hanno venduto, a caro prezzo, l’inestimabile.
Ogni qualvolta hanno incontrato altri miopi della propria e loro miopia, come te, e io mi sono proprio rotta.
In verità, tutti ci siamo rotti e in momenti come questo pare inutile cercare di riattaccare i pezzi: le membra di cui siamo stati smembrati, lontanissime fra loro, non possono più combaciare. Non mi resta che chiudere le persiane, mentre finiamo di prendere a picconate rabbiose quanto mi era rimasto in cui credere.
Tu torna pure a casa, sciogliti sul divano di fianco alla taciturna speranza che le giornate smettano di scivolarti addosso, non prima che siano finiti i programmi dopo il Tg5.
Io aspetterò che nel silenzio soffocante dell’oscurità alle quattro di mattina si sopisca quel tormento che troppo spesso mi accudisco dentro –oggi questo mondo non fa per lui. Fino alla prossima volta e in compagnia dell’illusione che le parole di Petrarca possano, un giorno, resuscitare.
In verità, tutti ci siamo rotti e in momenti come questo pare inutile cercare di riattaccare i pezzi: le membra di cui siamo stati smembrati, lontanissime fra loro, non possono più combaciare. Non mi resta che chiudere le persiane, mentre finiamo di prendere a picconate rabbiose quanto mi era rimasto in cui credere.
Tu torna pure a casa, sciogliti sul divano di fianco alla taciturna speranza che le giornate smettano di scivolarti addosso, non prima che siano finiti i programmi dopo il Tg5.
Io aspetterò che nel silenzio soffocante dell’oscurità alle quattro di mattina si sopisca quel tormento che troppo spesso mi accudisco dentro –oggi questo mondo non fa per lui. Fino alla prossima volta e in compagnia dell’illusione che le parole di Petrarca possano, un giorno, resuscitare.
Virtù contro al furore
Prenderà l’armi, e fia il combatter corto;
Chè l’antico valore
Negli Italici cuor non è ancor morto.
Prenderà l’armi, e fia il combatter corto;
Chè l’antico valore
Negli Italici cuor non è ancor morto.
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