Stringe la lama tra le mani, seduto al tavolo della cucina.
Poi stende i palmi e guarda il segno rosa lasciato dall’acciaio lungo la linea
della vita.
Intorno, quattro uomini in divisa con le braccia conserte gli osservano la
testa. Aspettano che si decida a usare il coltello, invece lui continua a
fissarlo, lucente sulle sue dita, freddo contro la pelle.
“Per favore, io non…”
“Se non riesce ci pensiamo noi, non si preoccupi. Siamo qui per questo.”
“Ma io non…”
“Ne abbiamo già parlato. Ora faccia in fretta, così non ci pensiamo più.”
Deglutisce, impugna il manico e spalanca l’altra mano. Punta la lama al centro
del palmo, di fianco alla cicatrice del suo diciottesimo compleanno, quando si
ferì col cancello appuntito della Guastalla, mentre lo scavalcava. Quando
ancora si andava in giro dopo il tramonto.
Spinge, spinge, spinge; stringe la plastica nell’altro palmo, sente la puntura.
Gli sembra di essere tornato al parco della prima notte da diciottenne e poi
apre gli occhi.
Si vede riflesso nella lama.
Costringe il pianto nella gola e lo soffoca con: “No, io non voglio.” Lascia
cadere il coltello sul tavolo e sbatte la schiena contro la sedia.
Seguono sei istanti d’immobilità e silenzio: tra gli uomini intorno al tavolo
due si scambiano occhiate, quello davanti alla finestra si volta a guardare il
vetro, uno disincrocia le braccia e l’altro, quello di fronte al coltello e che
ha parlato prima, fa un passo avanti.
“Adesso basta! Tenetelo fermo.”
L’uomo seduto proferisce un po’ di no, ma li lascia fare.
I due alle sue spalle gli distendono un braccio sopra al tavolo e gli
immobilizzano l’indice.
Mentre il polpastrello isolato si raffredda, gelato dal sudore che prima si era
scambiato con la lama, la divisa di fronte afferra il coltello, schiaccia
l’indice e con minuzia affonda la punta d’acciaio tra le terminazioni nervose
in cima al dito.
Appoggia il piccolo Miracle Blade lì di fianco.
Intanto una goccia color porpora emerge sopra al taglietto, si fa strada fino a
incontrare il solco sotto all’unghia.
La lacrima di sangue precipita fino a spandersi in mezzo alle particelle di
cellulosa di un foglio, che subito beve la macchia rossa in fondo, sotto le
parole nere, steso sopra al tavolo dalle divise che non avevano ancora preso
parte all’azione.
Io sottoscritto
dichiaro di voler guardare la televisione almeno tre volte al giorno –mattina,
pomeriggio, sera– sostandovi davanti non meno di un’ora per volta.
Nel pieno delle mie facoltà mentali mi impegno a sospendere il giudizio da
quando è acceso l’apparecchio televisivo fino a quando non lo spengo e ad
allietarmi se bisogna ridere, affliggermi se c’è da piangere.
Inoltre, accetto di preferire, sempre e comunque, il piccolo schermo piuttosto
che qualsiasi cosa al di fuori di esso.
Sono a conoscenza che la mancata osservanza della presente dichiarazione
costituisce violazione dei doveri dello Spettatore. Sono consapevole che, a
seguito di trasgressioni da parte mia, l’eventuale e inderogabile confisca del
televisore comporterà la mia follia.
In fede
Provoca un fastidio persistente ed irritante, un interrogativo latente ma d'improvviso ri-svegliato. Credo fosse questo il fine. Ben fatto, efficace.
RispondiEliminaGrazie cara.
EliminaDa te attendo nuove sull'evoluzione del ragionamento 'sofferto' in tutti i sensi.
Fantastico!
RispondiEliminaAdoro quando leggo qualcosa e il finale è un qualcosa che non mi aspetto minimamente.
Grazie!
EliminaFelice di averti sorpreso.
...e grazie per aver deciso di seguire i miei deliri scarabocchiati ^^
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