martedì 24 settembre 2019

Avevo meno di dieci anni, quando al saggio di fine anno mi fecero recitare la parte di Giulietta. Un’amica di mamma mi aveva regalato un vestito perfetto, cioè più o meno da dama, color verdone, ricamato in oro, di epoca non meglio identificata, ma che ci frega, tanto dalle suore, era tutto un generico d.C. Entravo in scena trascinandomi dietro il balcone di cartapesta e sempre mamma mi aveva fornito una rosa finta, che aveva fatto con la carta: imparai anch’io, se mai vi capiterà l’occasione, potreste vedermi fabbricare rose con gli scontrini delle bevute a fine serata, ma dovreste essere molto fortunati e anche piuttosto sbronzi, perché mi servono un po’ di petali.
Con quella rosa dovevo dire, in inglese, la frase più famosa di tutta l’opera, anche se ormai indubbiamente superata dalla pubblicità dell’Alfa Romeo. 
Che una rosa, con un altro nome, avrebbe lo stesso profumo.
William, mi perdoni: ma è sicuro?
Juliet, se il Montecchi non fosse stato un Montecchi, ti sarebbe piaciuto lo stesso?
E se lei non fosse stata una Capuleti, lui l’avrebbe amata fino a morirne?
Una rosa, che si chiami cactus, è lo stesso sweet? In fondo, anche lei ha le spine; eppure. 
Oggi, che di anni ne ho quasi il triplo e devo scrivere una tesi, mi scopro ancora a combattere sugli stessi quesiti di quando avevo più caramelle che anni.

Nessun commento:

Posta un commento