giovedì 27 febbraio 2020

Alle medie studiavo tedesco e inglese – con grandi risultati, figuratevi che la professoressa di tedesco, che qualche anno prima era stata un professore, aveva manifestato a mia madre una certa apprensione per la mia natura di outsider, perché a differenza di gran parte dei miei fighettissimi compagni di classe, non potevo dire che i miei fatturavano l’equivalente del pil svizzero. Comunque, nonostante quel Medioevo buio che sono state le medie, riuscivo, ogni tanto, a stupirmi: proprio allora iniziavo a scrivere e ricordo che rimanevo stregata di fronte a una certa assonanza fra la parola Mailand e my land. 
Milano era la mia terra e a giudicare dalle mie competenze geografiche, non poi troppo maturate negli anni a venire, Milano era anche la mia Terra. Certo, una terra di asfalto e palazzoni, aguzzini del cielo, ma così mi ha insegnato la fantasia. Milano è una maestra severa, un collegio alla moda, ma che ospita conferenze internazionali. Milano è la mia nostalgia, un sentimento a cui mi sono arresa, negli anni di lotte intestine fra me, figlia ingrata, e lei, madre di incostante ma grossa presenza. Cara città, fra le tante lamentele che ti rinfaccio, ogni inverno mi ricordi che non hai il mare e di quanto mi manchi – non tu, ma il mare; almeno quanto mi manchi tu, quando sono via. 
Stasera mi farò un bagno, chiuderò gli occhi, penserò ai pescatori del porto, al profumo del panettiere dietro casa dei bisnonni, alla voce di mio nonno, che si abbronzava con il colore delle olive taggiasche. Sono sicura, sentirò un po’ di sale.

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