Sono sveglia da poche ore e il mio telefono è già al 20% e l’unica cosa che vorrei è tornare a letto, anche se persino dormire non è un posto sicuro, quando le facciate più diroccate sono proprio quelle del lobo frontale.
Siamo in lockdown nella nostra testa almeno dall’adolescenza e chissà quando usciremo. Vorrei che oggi fosse un giorno, che a nessuno abbia fatto male.
Invece.
Tristezza si proietta su ogni superficie a cui mi affaccio. Le passeggiate sono solo fra i lobi, o i lombi, comunque i propri. Comunicare è un precipizio, siamo sempre ai lati opposti della faglia di sant’Andrea. Nessuno si salva da solo e spesso non si salva. Se vivessimo città variopinte, forse si arricchirebbe anche il nostro campionario di buio e la nostra capacità di guardare la notte. Imparare il dialetto delle bestie che ci abitano, spolverare le fotografie che ci fanno piangere, accogliere tutti gli oggi che sono stati oggi e non li avremmo voluti, altrimenti interviene il corpo di pulizia – igiene mentale – comandato dall’inconscio, che non conosce mezze misure. La fatica di essere animali teleologici dentro a gabbie di entropia.
Non c’è vaccino alla malattia mortale che è la vita, Zeno aveva ragione.
Bisogna avere cura delle proprie ombre, per non rinunciare al sole. Però non è mica giusto.
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